Macerata orfana di botteghe
Cede a San Ginesio
l’identità dei vincisgrassi

IL COMMENTO di Carlo Cambi - Ormai la città è un deserto di offerta gastronomica dove operano spacciatori di calorie perché ha smarrito il valore della comunità. In via Garibaldi stanno chiudendo storiche attività. Tipicità Evo è stata uno show, mentre il festival dei vincisgrassi e Leguminaria ad Appignano sono l’affermazione della cultura radicata nel territorio

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Carlo Cambi

di Carlo Cambi

Ho fatto un sogno: passeggiare per Macerata con Claude Levi Strauss. Non potendo farlo fisicamente mi affido alle sue riflessioni per cercare di capire cosa accade. Così passando da via – o corso, fate voi – Garibaldi mi dicono che la pescheria, officiata da due signore adorabili che ogni santo giorno arrivavano da Citanò col pesce fresco catturato dai mariti nel generoso Adriatico, è alle battute finali. Via via hanno ridotto i giorni di negozio e ora annunciano: “Chiudiamo, qui è un mortori”. Venti passi più avanti c’è una macelleria: storica. Vende solo carne marchigiana, la confeziona con perizia d’antico beccaio. Si dice che stia per calare il sipario.

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La pescheria in via Garibaldi ha annunciato la chiusura entro fine anno

Cento passi oltre, risalendo verso piazza della Libertà, c’è un’edicola. Sarà a breve un capitolo chiuso. Con Levi Strauss ragiono di gustemi. Che sono? Si capisce d’intuito. Così come i fonemi, le parole, esprimono la lingua che è causa ed effetto della struttura sociale, i gustemi che sono i sapori, i cibi, le prassi gastronomiche esprimono allo stesso grado con il linguaggio dei sensi e le opzioni alimentari valori e strutture sociali. Con Levi Strauss vedendo che la via si fa mestamente muta dei suoi gustemi, diventa afona e non comunica più ci domanderemo: quale futuro per una società, o se preferite per una comunità, incapace di narrarsi? Se tace la parola scritta (l’edicola) e si disperde la parola agita (la bottega che nutre) come si trasmettono i valori? L’identità come viene descritta e sostanziata? Lo spegnersi mesto di queste botteghe – sono insieme capisaldi di relazionalità e presidi di servizio e dunque di socialità oltreché di diffusione culturale e di generazione del senso di comunità – è certo conseguenza diretta dell’immiserirsi del centro storico. Ne riparlerò in altra occasione e credo che dovrebbe essere oggetto di profonda riflessione da parte di chi regge la cosa pubblica. Stavolta l’analisi è altra. Con Feurbach – in realtà “copia” da Moleschott fisiologo materialista che l’Italia ottocentesca adorò oltre i suoi meriti – torna l’antico adagio: l’uomo è ciò che mangia.

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La macelleria in via Garibaldi

Ma è riflessione invecchiata perché oggi la disponibilità, sovente smodata, di cibo deve farci dire: l’uomo mangia ciò che è. Una città altro non è che un insieme di uomini, un organismo collettivo. Dunque Macerata mangia ciò che è. Perdendo l’identità del centro storico, restando afona del suo dialetto alimentare che veniva “parlato” da quelle botteghe che chiudono, riducendosi a dormitorio di studenti che hanno pochi soldi in tasca, non essendo più luogo di produzione non ha più bisogno di energia sotto forma di nutrimento identitario, non avendo nel suo centro bambini che incarnano la continuità non è spinta a perpetuare la tradizione alimentare che però è anche il linguaggio attraverso cui si narrano le proprie radici. Così muta la geografia antropica e quella dei luoghi. Crescono in centro i punti di spaccio di calorie travestiti da ristorazione, emergono salvo poi dissolversi rapidamente cucine falso-etniche, deperisce complessivamente la qualità dell’offerta e l’identità della città. Tutto questo accelera la forza centrifuga dal centro. E rende però perfettamente coerente in questa miope dissoluzione l’edizione appena trascorsa di Tipicità Evo. Nata come manifestazione che doveva affermare la cultura gastronomica identitaria quest’anno ci ha offerto una finestra sul Giappone.

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Da tempo nella vetrina della Casa del Parmigiano di via Garibaldi compare il cartello “Vendesi attività”

La ragione è molto pratica: il Giappone ospita la prossima Expo e la Regione Marche, come tutte le regioni ci andrà. Chi ha tenuto i fili del programma ha sperimentato a Macerata un aperitivo di giapponesità. Bravi perché chi fa impresa nel proprio interesse e, a maggior ragione se con un con un acritico contributo pubblico questo deve fare: sperimentare. Tuttavia una domanda va posta: è questo ciò che serve a una città in agonia d’identità? E’ questo ciò che stimola una sana competizione verso la qualità dell’offerta? E’ questo ciò che consente a quelle botteghe che stanno chiudendo di rianimarsi, di riconoscersi e di diventare punto di distribuzione delle fatiche e dei valori del territorio? Sono domande che bisogna porsi. Questa edizione di Tipicità Evo ha interpretato perfettamente la decadenza del centro storico.

tipicita_evo-1-325x244Ha seguito il canovaccio dello show. Fare spettacolo per animare. Questo soddisfa gli amministratori che possono affidarsi al contatore delle presenze (per la verità piuttosto scarse) per misurare il consenso che però è effimero. Nulla stratifica, nulla valorizza. Portare il Giappone a Macerata riempie (forse) il teatro e giustifica lo straniamento alimentare, quello quotidianamente officiato dagli spacciatori di calorie che dietro al falso etnico (costa pochissimo produrre quei piatti!) sfamano studenti in cerca di porzioni economiche. Si possono, anzi si devono coltivare le contaminazioni, ma a condizione di costruire e coltivare a fianco una propria identità. Sarebbe come abbandonare il diletto, l’italiano per parlare solo inglese. Esiste una lingua di utilità (l’inglese) e una di identità (il dialetto). E vi è un altro elemento da prendere in considerazione. Se per ragioni di sponsorizzazione la riflessione sulla qualità della ristorazione in città è affidata a chi gestisce l’azienda culinaria del sindaco viene da chiedersi quale profondità di analisi se ne ricavi. La risposta viene consultando le guide gastronomiche. E’ vero, i loro giudizi non sono vangelo, ma esprimono comunque un parere critico. Se si dovesse affidare l’attrattività di Macerata alla ristorazione non ci sarebbe da stare molto allegri. Non una delle tavole della città merita giudizi d’eccellenza e i pochi che hanno con amorevole pervicacia sostenuto la cucina di territorio e di tradizione vengono mortificati da un contesto che li devalorizza.

Si era ragionato di una casa intitolata ad Antonio Nebbia per recuperare una centralità di Macerata magari mettendo insieme lo Scacchi, il Bacci, il Latini fino al Tirabasso per affermare la cultura gastronomica di questo pezzo cospicuo di Marche dove tavola e contado da secoli dialogano nella stessa lingua. Si può fare: basta guardare a Forlimpopoli, a casa Artusi. Ma niente; si preferisce investire (o sperperare) denaro pubblico in momentanei show senza nulla consolidare. Pure il timido tentativo che era stato fatto con l’Enoteca voluta dalla Camera di Commercio è stato azzerato soffocato dalla paccottiglia gastronomica. Qui si dovrebbe ragionare di politiche culturali e a Macerata davvero non c’è da stare allegri. Una domanda però con Levi Strauss ce la siamo posta. Esiste un’altra via?

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Lo chef stellato Errico Recanati

Ci sono esempi virtuosi che potrebbero aiutarci ad avere una Rinascimento gastronomico di Macerata e dunque un recupero del suo primato culturale e della sua identità? Sì ci sono. Uno lodevolissimo va in scena a San Ginesio con il festival dei vincisgrassi. Strano che se ne occupi San Ginesio e che non lo faccia Macerata dove è nato e si è sostanziato il progetto di rendere questa preparazione identitaria una specialità tradizionale garantita, marchio che in Italia solo altre quattro ricette portano. Ma cosa fanno a San Ginesio? Sposano la cucina alla cultura e all’identità costruendo una sorta di genius coci. Mettono in campo l’università di Macerata, si affidano alla maestria di Errico Recanati (cuoco di eccellenti doti tecniche e di profondissimo legame con la tradizione e il territorio che gli valgono una stella Michelin), coinvolgono il paese, offrono una lettura colta e alta della gastronomia.

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I vincisgrassi alla maceratese

I vincisgrassi di San Ginesio possono oggi dirsi il piatto della pace: i sette strati di sfoglia che ricordano giorni della Creazione, le sette virtù teologali possono essere anche le sette luci della Menorah (anch’essa celebra la Creazione è il candelabro a sette braccia degli ebrei: la loro luce sacra) ma anche le sette fatiche che in epoca pagana condussero l’umanità alla consapevolezza. Del pari San Ginesio che con Alberico Gentili ha aperto il mondo alla mediazione del diritto internazionale può candidarsi a luogo del nutrimento della pace, sì anche attraverso i vincisgrassi che hanno un “sugo” potremmo dire interreligioso perché hanno una prassi che unisce tutto il Mediterraneo ed è quello della pasta sfoglia, perché nascono come il piatto della festa, della condivisione, della riconoscenza.  Si può rivestire una ricetta di un significato che va oltre il gastronomico? Sì, anzi si deve. Basterebbe aver letto una sola volta la Physiologie du gout di Jean Anthelme Brillat-Savarin per sapere che la “gastronomia è quella scienza che si occupa dell’uomo in quanto egli si nutre”. Ed è in questo senso la summa di tutti gli esercizi di studio e di cultura. A San Ginesio questo si fa: inserire la cucina nel corredo dei valori del territorio. Così esplorare se mai fosse vero che lì è sepolto Pipino il Breve, il progenitore dell’idea di Europa, pigliare cognizione che i Templari hanno da lì difeso la nostra civiltà, sapere che con Alberico Gentili il diritto, recuperando Cicerone, ha costruito le nuove reazioni nel mondo e legare tutto questo al nutrimento identitario, alle prassi di una comunità che si rende nel gesto dell’accudimento universale, significa elevare un luogo a riferimento, una ricetta a simbolo, un sapore a linguaggio. Non c’è nessuna concessione allo show, alla spettacolarizzazione, c’è invece una profonda riflessione sulla necessità di mantenere e consolidare le proprie coordinate alimentari riscoprendo e valorizzando il convivio come punto d’incontro e di costruzione della consapevolezza.

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Leguminaria ad Appignano

Ma eguale valore ha avuto ad Appignano Leguminaria ottimamente organizzata dal sindaco Mariano Calamita. Costituisce quella festa un appuntamento che coinvolge tutto il paese che si riconosce attorno a un sapere stratificato: la produzione delle terrecotte e delle ceramiche e a una fatica condivisa, la coltivazione. Unire terrecotte e legumi è prassi gastronomica eccelsa e necessitata, ma è anche rappresentazione totale dei propri valori attraverso le proprie abilità. Attorno a Leguminaria è sorta la volontà di recupero di alcuni di questi prodotti dimenticati e si sta conducendo una sperimentazione proficua, attorno a Leguminaria è stato riconsolidato lo spirito comunitario. Basti dire che l’oratorio, col parroco che si fa parte attiva di una condivisione generale, diviene luogo d’incontro gastronomico, che le taverne e le cantine sono animate dagli abitanti in una continuità generazionale che va dal bisnonno al nipote in un’orgogliosa partecipazione. La proposizione gastronomica è stata affidata all’istituto alberghiero di Cingoli che forma i cuochi e le cuoche che parlano la lingua della cucina maceratese, che dà ai ragazzi l’opportunità di diventare ambasciatori dell’ospitalità e alle famiglie di Appignano che parlano ai sensi del visitatore con il loro lessico culinario. Ma sia Sa Ginesio, pur ferita a morte dal terremoto del 2016, sia Appignano mantengono nei loro pregevolissimi centri storici presenze vive di botteghe e di prodotti, di gente e d’incontri. A Macerata dove le strade e i vicoli si fanno muti la gastronomia non riesce a farsi lingua e cultura, non ha il sapore dell’identità, al massimo è evento effimero che dura lo spazio di un selfie lasciando un deserto di botteghe chiuse e di bocche afone.

“Festival dei vincisgrassi”, due giorni di gusto

Una scalinata di ceramica in centro storico: «Appignano un museo d’arte a cielo aperto»

Un angolo di Giappone a Macerata attraverso i linguaggi del cibo: «Una vera fusione tra culture»

 



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