Paola Giorgi
di Giovanni De Franceschi
«Una bestia che ti incatena, catene ovunque, immobilità. E’ come essere incatenati in una gabbia». E’ il grande inganno dell’anoressia: si pensa di aver il controllo, in realtà si è in balia di una malattia dalle radici profonde, che scava nell’anima prima che nel corpo. Arrivare a pesare meno di 40 chili, il viso scavato, denti che sembrano enormi, sono solo sintomi di un malessere che cova sotto le ceneri fino a esplodere. All’inizio ci si sente invincibili, forti, sicuri. Ma è un bluff e quando le carte si scoprono, ci si ritrova da soli, magari a letto, forse al buio, di sicuro senza più voglia di vivere. Ne è convinta Paola Giorgi, 50 anni, attrice teatrale, ex assessore regionale. Lei per circa dieci anni ha vissuto e combattuto questa terribile malattia, poi ha trovato la forza per uscirne, si è sposata, ha avuto una figlia, Agnese, che ha 20 anni ed è tornata a vivere. Ora è a Roma e cura le relazioni esterne per il gruppo di Alessandro Longobardi, uno dei più grandi imprenditori teatrali d’Italia. L’abbiamo intervistata dopo il caso della 19enne di Porto Recanati denunciata quale amministratrice di un blog “Pro ana” (leggi l’articolo).
Giorgi, l’esistenza di questo sito e delle centinaia di ragazzine che lo frequentavano è stata una sorpresa?
«Mi ha stupito che fosse una ragazza di 19 anni a gestirlo, che fosse accaduto qui da noi, ma so che ce ne sono molti e ne capisco anche il meccanismo sia di chi lo frequenta, sia di chi lo amministra: in entrambi i casi si tratta di persone malate. E’ un modo per creare complicità, per superare l’isolamento. E’ l’unica spiegazione che mi sento di dare, altrimenti chi mette in piedi certi blog dovrebbe avere una mente criminale».
Lei quando si è ammalata di anoressia?
«Ero molto giovane, avevo 20 anni e peraltro era anche un periodo bello della mia vita. Frequentavo una scuola di teatro a Roma, l’estate tornai nelle Marche, lavorai per un po’ in una gelateria a Senigallia, giusto per guadagnarmi i soldi per lo studio e quando ritornai nella capitale decisi di avere il massimo controllo su me stessa e smisi di mangiare».
Qual è il meccanismo che si innesca per arrivare a smettere di mangiare?
«E’ una malattia tipica delle persone perfezioniste, che pensano di poter controllare il mondo. Ti rendi conto che l’unica cosa che puoi controllare è il cibo e allora tutte le tue attenzioni si focalizzano lì. Si instaura questo pensiero devastante per cui ti basti da sola e sei convinta di non aver bisogno di niente dal di fuori. In realtà è l’esatto opposto, non controlli più niente e sei completamente in balia della malattia».
Com’è possibile lasciare il cibo così da un giorno all’altro?
«Guardi, all’inizio ci sente forti, iperattivi, quasi onnipotenti. E’ come se ci si compiacesse sempre di più del proprio autocontrollo, “anche senza mangiare riesco a fare ogni cosa” è il pensiero, ma è proprio questo il grande inganno».
E col trascorrere delle settimane ovviamente la situazione peggiorava
«Esatto, inizi con l’isolarti dal mondo. Il cibo è condivisione, è socialità e invece tu rifuggi anche solo al pensiero di un tè quindi di calorie da assumere. Pensi ho un ricordo ancora nitido: ero andata a una festa di compleanno e tra le varie cose da mangiare e da bere, c’erano anche alcuni pezzi di pizza. Erano stati fatti da una signora famosa per la sua cucina. Io restai per oltre un’ora a quella festa senza parlare con nessuno e con un solo pensiero in testa: quella pizza che avrei voluto mangiare e bruciare allo stesso tempo. Penso che quella fu una delle ultime volte che uscii di casa. E’ una malattia infida che ti trascina giù con una forza allucinante».
Come passava le sue giornate?
«La giornata era scandita da un solo pensiero: il cibo, come eliminarlo e come non incontrarlo. Anche se mi alzavo alle otto di mattina alle 10 non capivo già niente perché non avevo più le forze. Non riuscivo a far niente, è stato un periodo nerissimo. Avevo anche finito la scuola di recitazione nel frattempo, ma dovetti tornare a casa perché non ero in grado di costruire nulla. Quindi è stato un fallimento dietro l’altro, non avevo neanche la sensazione di fame ed ero arrivata a pesare intorno ai quaranta chili. Con la mia famiglia che era devastata, disarmata».
Cosa si arriva a fare?
«Mangiare cibi congelati per esempio, ma non per fame solo per l’odio verso il cibo. E poi lassativi, diuretici, sonniferi per dormire, se ne fanno davvero molte».
In quel periodo quando si guardava allo specchio si trovava bella?
«In realtà non mi interessavo neanche più dello specchio. Vedevo il mio viso incavato, deturpato, vuoto, ma arrivati a quel punto non cerchi neanche più la bellezza, è solo un continuo compiacersi del tuo controllo. E’ qualcosa che ti mangia l’anima, pensi di avere un controllo assoluto, in realtà sei solo incatenata. Il grande inganno appunto».
Ma quindi non si entra in questo vortice perverso per piacere e piacersi di più?
«No, non è la malattia della moda. E’ vero che certi stimoli possono favorirne l’insorgere, però devono trovare terreno fertile, è tutto molto più profondo. La perdita di peso, la mania di controllo sul cibo sono solo sintomi di un disagio interno. Ci ho messo molto per capire da dove arrivasse».
E che risposta si è data?
«Penso cercassi un alibi a un possibile fallimento. Fin da sempre ho avuto una grandissima passione per il teatro, però sapevo che il percorso per riuscire sarebbe stato difficile e complicato, soprattutto per me nata in una cittadina dove neanche esisteva il teatro. Quindi è come se mi fossi posta da sola ostacoli che avrebbero potuto giustificare un’eventuale sconfitta».
Quando e cosa le ha fatto scattare la molla che l’ha portata a risollevarsi?
«Temporalmente non ricordo, però so che a un certo punto mi sono resa conto che non controllavo più niente e che ero totalmente controllata dalla malattia. E allora ho detto no. Forse la molla è stata l’aver visto la bruttezza, non tanto fisica, quanto quella di una donna forte che non c’era più. Ed è iniziato un lungo percorso per uscirne, fatto di ricadute e di conseguenze fisiche che ancora oggi porto. Così come si precipita in un attimo, tanto è dura uscirne. E soprattutto riassettare un corpo sottoposto per anni a continue privazioni. Penso di esserne uscita definitivamente con la nascita di mia figlia Agnese, dopo 10 anni».
Ora da genitore cosa si sente di consigliare a una famiglia che dovesse accorgersi di avere una figlia o un figlio con questa malattia?
«Andare subito da un professionista, in un centro specializzato, farsi aiutare. Io non l’ho fatto e questo è un altro degli aspetti devastanti. Ma io avevo 20 anni e sono una donna fortunata. E’ impensabile che una ragazzina di 13 anni possa riuscirci da sola. L’approccio sanitario è multiterapico, ma purtroppo qui nelle Marche siamo molto indietro. Nel 2015 in Regione approvammo una delibera che fissava un impianto chiaro a livello territoriale per affrontare questa malattia, senza lasciare le famiglie da sole o costringerle ad andare fuori con costi esorbitanti. Purtroppo dopo due anni e mezzo non è cambiato nulla, la delibera non è stata attuata. Serve un centro residenziale specializzato, per partire basterebbero anche 10-15 posti, ma non c’è la volontà politica evidentemente. Con Ceriscioli ho parlato molte volte, comprende bene la necessità e il problema, ma ancora non si è fatto niente in questo senso».
Invece a una ragazza che dovesse cadere in questo incubo cosa sente di dire?
«Di non scoraggiarsi, sento di essere un esempio positivo e per me è importante. Non bisogna vergognarsi, c’è da chiedere aiuto. Io sono caduta nell’abisso e dopo molte sofferenze sono riuscita a uscirne. Ho toccato il fondo e l’ho trovato elastico, perché il fondo è questo».
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Secondo me, e’ meglio mangiare.
Una testimonianza molto toccante e molto istruttiva, quella di Paola, che ha avuto il coraggio di mettere a nudo e raccontare una fase molto bruta della sua vita.
Paola Giorgi si presenta nella veste di testimone. Dice cose che ha vissuto sulla sua pelle e dice come ne è uscita. Se fosse in mio potere le darei carta bianca per organizzare trasmissioni televisive, o registrazioni da collocare su youtube per raccontare come elle c’è entrata, come ha vissuto e come ne è uscita. Ed insieme a lei anche altre persone che hanno vinto. I morti non parlano. Chi è nel vortice nero non sa cosa dire. Se ce la fa può raccontare come c’è entrato, ma non come è uscito.
Mi permetto di dire che l’intervista alla Giorgi è uno dei migliori colpacci che ha fatto Cronache Maceratesi. Ho seguito la Giorgi nella politica. Ma in questa veste mi ha affascinato. Nel senso che ha la sensibilità di un’attrice, abituata ad esprime i ruoli – in questo caso il suo – descrivere come ha iniziato il copione della sua esperienza, come lo ha recitato ed infine come è riuscita a risorgere. So dirà che questa è una sua storia. Eppure è comune a tante persone. Sono anni che sentiamo parlare di questo problema. Come parliamo di come si cade vittima della droga e come uscirne. Il sistema è comune a quello descritto dalla Giorgi. Ho visto persone andare allegramente su droga. Ho visto morti. Ho visto come se ne esce.
Mentre per la droga manca una forma draconiana per distruggerne lo spaccio, per l’anoressia non si può fare una paragone. Per la droga abbiamo un’offerta esterna per soddisfare il bisogno interno. Per il rifiuto del cibo è un problema che sorge proprio dall’interno e rimane all’interno. Nessuno ti leva il piatto per non farti mangiare. Mentre la droga viene confezionata dall’esterno e offerta.
Però, come per la droga, il problema è all’interno dell’individuo e la battaglia si svolge all’interno, quando per la droga esiste un intervento esterno politico e repressivo per combatterla.
Le “Vite dei santi padri” raccontano di un anacoreta siriano che, ritiratosi in meditazione nella solitudine del deserto, scelse di vivere di sole erbe e radici.
Il nostro non sapeva però distinguere le piante buone da quelle cattive. Lo coglievano perciò dolori di ventre e conati di vomito, le forze gli mancavano e la sua forza vitali pareva sul punto di abbandonarlo. Ma ecco che dopo sette giorni di digiuno, a lui s’avvicinò una capra selvatica che prese il fascio di erbe raccolte dall’eremita e cominciò a separare con la bocca le piante velenose dalle buone. In questo modo il sant’uomo imparò mangiare e cosa rifiutare, e poté vincere la fama senza più correre alcun pericolo.
Non ci sono più le capre d’una volta-
Gli esseri umani sbagliano, qualsiasi cosa facciano, sia che seguano la strada del capriccio, sia che seguano quella del dovere, sia che ascoltino la voce della passione, sia che ascoltino quella della rinuncia. La natura si serve contro di noi delle nostre virtù come delle nostre colpe. Ottilia aveva deciso di lasciarsi morire di fame. Ottilia aveva capito che l’oggetto del suo amore era la morte…
https://www.youtube.com/watch?v=xPGguALO6v4