di Gabriele Censi
Va di moda di questi tempi fare appello all’Accademia della Crusca per risolvere questioni di vocabolario. Dopo il clamore per il “petaloso” introdotto da uno scolaro di Ferrara, nella giornata della donna la professoressa Donatella Donati ha voluto chiedere un chiarimento sull’uso dell’appellativo “prefetto” al femminile. «Ho assistito ad un ricevimento in prefettura in cui Roberta Preziotti veniva annunciata precedendo il suo nome con “il signor prefetto”, mi è sembrato un po’ stonato e ho voluto interpellare l’accademia fiorentina. Quanto all’aggettivo “petaloso” usato anche da Renzi ricordo che molti scrittori italiani hanno usato il suffisso “oso” e tra loro Fenoglio (incuboso) e Sciascia nel romanzo “toto modo “(imbecilloso e imbecillosi)».
La richiesta della professoressa è stata prontamente evasa con il riferimento ad un precedente quesito analogo e la risposta è chiara, si dice prefetta: «Benché a tutt’oggi il “correttore ortografico” le segnali come forme errate, fin dal 1987 Alma Sabatini, nel suo “Il sessismo nella lingua italiana”, raccomandava di usare i femminili prefetta e questrice o questora. Se non ci sono dubbi per prefetta, questore prevede, infatti, la possibilità della doppia uscita al femminile. D’altronde anche Luca Serianni si è soffermato sul femminile dei nomi in -tore e -sore. Questrice rientra in una serie di titoli professionali di ruoli “alti”, che ormai si stanno acclimatando sulla stampa e nell’uso diffuso: ambasciatrice, governatrice, procuratrice, rettrice, senatrice, ecc. (su cui cfr. anche Stefania Cavagnoli, Linguaggio giuridico e lingua di genere: una simbiosi possibile). La serie di agentivi in –tora di più antica attestazione si riferisce per lo più a professioni “basse” per cause primariamente extralinguistiche, ma anche perché – come ha osservato ancora Luca Serianni – “Nel suffisso –trice la desinenza –e non reca un esplicito contrassegno del femminile, e di conseguenza la lingua popolare tende ad utilizzare il maschile –tore, mutandone la terminazione in –a. Si ha in questi casi un’opposizione –tore / –tora, più regolare e immediata».
Il testo ricorda anche altri contributi a favore della tesi: «Cecilia Robustelli (Il sessismo nella lingua italiana in Treccani.it. L’Enciclopedia Italiana) ricorda che: “Con l’espressione sessismo linguistico si fa riferimento alla nozione linguistic sexism elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio. Era emersa infatti una profonda discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico”. D’altronde fin dal 1986 Patrizia Violi, (L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio) giustamente puntualizzava che: “Il genere non è soltanto una categoria grammaticale che regola fatti puramente meccanici di concordanza, ma è al contrario una categoria semantica che manifesta entro la lingua un profondo simbolismo”. Già nel 1993 il noto Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, promosso dall’allora Ministro Sabino Cassese, dedicava il paragrafo 4 proprio all’uso non discriminatorio e non sessista della lingua italiana e autorevolmente denunciava: “Il fatto che in italiano il genere grammaticale maschile sia considerato il genere base non marcato, cioè […] valido per entrambi i sessi, può comportare sul piano sociale un forte effetto di esclusione e di rafforzamento di stereotipi. […] l’amministrazione pubblica, attraverso i suoi atti, appare un mondo di uomini in cui è uomo non solo chi autorizza, certifica, giudica, ma lo è anche chi denuncia, possiede immobili, dichiara, ecc.”.
Proprio per questo sono state molte le iniziative e le raccomandazioni istituzionali e pubbliche – nazionali e internazionali – tese a promuovere l’uso di titoli professionali femminili in modo da non oscurare la presenza delle donne. Se nelle abitudini e propensioni diffuse l’uso sessuato della lingua tarda a imporsi – non di rado anche ad opera delle stesse donne – proprio nelle funzioni più “alte” della società, ciò è dovuto ad una errata intenzione di sottolineare ancora per omologazione il prestigio di ruoli un tempo raggiunti solo dagli uomini. Come già osservava su questo stesso sito Cecilia Robustelli, in un contributo dal significativo titolo Infermiera sì, ingegnera no?: “sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere maschile: il ministro Elsa Fornero, il magistrato Ilda Boccassini, l’avvocato Giulia Bongiorno, il rettore Stefania Giannini”. Analogamente Stefania Cavagnoli (Linguaggio giuridico) rileva per la stampa “uno stato di dinamismo, di flessibilità, di confusione, sicuramente di non coerenza nell’uso del femminile relativo alle cariche politiche e alle professioni (a certe professioni). […] si trovano esempi in cui tutte le regole di una comunicazione di genere vengono infrante […]. Si trovano però, per fortuna, anche alcuni esempi positivi di trattamento equilibrato fra uomo e donna […]. In generale, si assiste ad una grande oscillazione legata soprattutto alla maggior presenza […] di donne in posizione dirigenziale e governativa».
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Prefettosa.
quest’idea che un’accademia possa proteggere una lingua o controllare e influenzare la sua evoluzione magari in nome del politicamente corretto o per piaggeria verso la presidente della camera è desolante e insensata e avvilente… ogni discorso di Renzi è un atroce stupro della lingua italiana, perché questi utilissimi cruschettari non intervengono mai cavallerescamente in difesa?
NON è MOLTO CHIARO CIò CHE SI EVINCE DALL’ARTICOLO Né TANTO MENO IL TERMINE PREFETTA O ALMENO IO NON HO COMPRESO LA CONGRUENZA.
più che oscuro direi penoso: domandarsi perché infermiera sì e ingegnera no quando le donne fanno le infermiere da migliaia di anni e studiano ingegneria da 50 sì e no non depone proprio a favore dell’intelligenza della Socrata in oggetto… e poi perché non introdurre nel dizionario anche giornalisto, musicisto, poeto, artisto, papo, messìo?
In altri continenti questo problema non si pone. Lì la donna è, quando va bene, una casalinga. Quando va bene.