di Lucio Biagioni
Era un segno della Milano e dell’Italia dei tempi nuovi, del miracolo economico italiano che si esprimeva nella motorizzazione di massa a costi abbordabili per i tanti ai quali l’auto era apparsa fino ad allora solo un miraggio, e una esclusiva per ricchi o altoborghesi benestanti. Qualcosa che evocava una raggiunta felicità collettiva, simboleggiata dalla pubblicità di stazioni di servizio con benzinai sorridenti, più che in tuta, in uniforme, che cortesissimi mettevano benzina, e al tempo stesso, quasi fossero interclassisti antesignani dei pit-stops della futura Formula Uno, si affaccendavano in gruppo intorno alla spider, alla Millecento, all’utilitaria, a misurar la pressione delle gomme, controllare l’olio e lucidare il parabrezza – tutto ciò che voleva dire: essere al servizio della mobilità dei cittadini, per lavoro e per svago, per la loro nuova vita di tutti i giorni. Ecco dunque una rivoluzionaria stazione di servizio multifunzionale, che oltre alle pompe comprendeva una palazzina a due piani ed un piano interrato, dotata di un locale di lavaggio delle auto, di una sala d’attesa con bar, di una officina elettrauto, con la possibilità, al piano superiore, di ospitare uffici e l’abitazione del gestore.
Palazzina? Vi sarà sembrato. Palazzina sì, ma inglobata all’interno di una struttura architettonica modernissima, che richiama in modo nemmeno vago Frank Lloyd Wright, per quei suoi tondeggianti terrazzi a sbalzo che ne fanno un unico blocco scultoreo, d’ispirazione nautica e transatlantica, suggerendo, come viene accentuato dalla sua posizione, come il più celebre newyorkese “Flatiron”, di marca-incrocio fra due vie, l’idea di una nave in marcia verso la meta. E la nave va.
È “Garage Italia” di piazzale Accursio a Milano, che fu commissionato nel 1952 dal presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi Enrico Mattei all’architetto Mario Bacciocchi: una stazione di servizio particolare, avveniristica, come si diceva a quei tempi, con quel suo fascione giallo squillante e moderno – “giallo Agip” in consapevole contrasto con un’epoca di tinte e umori grigi e smorti, ornato dal Cane a Sei Zampe rivisitato dall’Oriente e proiettato verso il futuro. Lo stesso logo dell’Eni. Il marchio di fabbrica ideato dal suo presidente. Anche perché, con sei zampe invece di quattro, si fa più strada e si è più veloci. Non per nulla, la “Supercortemaggiore”, chiamata così in onore di quel piccolo grande giacimento mediatico di petrolio scoperto nel Piacentino, era “la potente benzina italiana”. Il carburante del motore-Italia del Paese smanioso di riscatto.
Come oggi? Sul paragone mediaticamente insistito giocano i rilevatori del vecchio, da decenni dismesso, architettonicamente sottovalutato “Garage Italia”, che si sono da poco insediati al posto di quel gommista, che l’aveva comunque tenuto in vita, prima del formidabile avvento di Lapo Elkann, customizer, Carlo Cracco, chef di cucina e di cooking show e Michele De Lucchi, architetto. Come è ormai risaputo, il vecchio “Garage Italia” si è trasformato in “Garage Italia Customs”: Tailor-made Craftsmanship (per parlare come si fa oggi, anche da parte di chi magari non capisce una mazza d’inglese) alla Italian Way, Where the Dreams Come True.
Quali sogni? Quelli di mettere on the road Jeep bicolori o “500” tigrate per le giungle d’asfalto cittadine, o, se non si vuol rinunciare allo stile, gessate alla Pied de Poule Look o al modo classico, a memoria dei famosi abiti dell’Avvocato, dal nipote ereditati e riattatamente indossati. Non solo auto, e non solo della marca di casa. Anche le barche, naturalmente. Così come aerei ed elicotteri. Il concetto che sta alla base è filosoficamente elevato: “valorizzare la personalità unica del cliente”. E, mentre si aspetta, andare magari a mangiare dallo stellatissimo (soprattutto dalla tv che conta) Carlo Cracco, degustando le sue amenità culinarie per partecipare – come spiega Lapo -, al “sogno italiano”.
Tutto si può dire di Lapo Elkann, non che non abbia sempre avuto gusto e glamour respirati sin dall’infanzia. Glamour, quel vocabolo dato per intraducibile che sprigiona un’aura di estetica “sprezzatura”, più che di stile. Ma un po’ meno che stile. Ancora al di qua dello stile. Perché lo stile è sì qualcosa di profondamente apparentato con gusto e glamour. Ma, a differenza di questi, che si applicano ad aspetti specifici, come il vestire o l’abitare o altre variopinte modalità del consumare, emerge e si diffonde in tutti gli aspetti della vita. La cultura, la parola, l’azione che è forza spirituale. Lo stile che proviene dalla e si fa visione del mondo. I bravi stilisti di moda hanno gusto e glamour? Certo che sì, ma nel vestire. Neanche fossi Battiato, a Brunello Cucinelli che parla di filosofia preferisco Zygmunt Bauman. A Massimo Bottura che favolisticamente estetizza per valore aggiunto i suoi piatti, preferisco la madeleine di Marcel Proust.
Solo che oggi c’è un cortocircuito. Se oggi stilisti e cuochi si sono ripensati da alti artigiani ad artisti e filosofi maîtres à penser, è perché sono immersi in una prefabbricata opinione pubblica di consumatori, che si sentono senza fatica elevati all’arte e alla cultura (se non quella di aprire il portafoglio), solo indossando un capo firmato o sedendosi al tavolo di un ristorante stellato. E di realizzarsi in questo modo come “personalità unica” da esibire. Ignoranti e postmodernamente rozzi in un vestito di Armani davanti a un piatto di Cracco.
Non starò a ricordare che oggi questa voglia di esibizione fondata su una “unicità”, che nella massa di simili unicità necessariamente prodotte è soltanto una uniformità seriale, è capillarmente sfruttata sia dall’industria del lusso che dai padroni di Internet e dei “social media”. Dico a mo’ di esempio che Gabriele d’Annunzio aveva la stessa pretesa di “unicità”, ma, accanto a quel magnifico arredatore che si riteneva e dandy nel vestire e nelle essenze odorifere, scriveva romanzi come “Il Piacere” e poemi come “Alcyone”. Per questo aveva stile, non solo glamour.
Ce l’aveva anche Mattei (che pure ammirava d’Annunzio), erano glamorous i suoi vestiti anonimi, il suo cappello scuro, da uomo di una volta, che lo invecchiavano ben oltre l’età, glamorous il suo caffè quotidiano, glamorous il suo amore per i cibi semplici, glamorous la giacca a vento e gli stivali di gomma con cui pescava le trote. Aveva glamour, conferiva glamour ad oggetti e abitudini che in sé non ne avevano, perché aveva stile. Perché era consapevole della sua missione fondata su una visione del mondo, che voleva migliorare la vita di tutti, combattere la povertà, la disoccupazione, il colonialismo, l’emarginazione di individui e paesi. Perché aveva la visione di una umanità unita, nel segno del Bene Comune. Il suo vecchio “Garage Italia”, al servizio della gente comune, common people si direbbe oggi, era una minuscola tessera di questo grande disegno.
Ce l’ha un disegno, il nuovo “Garage Italia Customs”? Sì: ricreare, dice Lapo Elkann, quei “tempi d’oro” degli anni di Mattei. Ma come? Ma è ovvio, col lusso per pochi. Così fan tutti, nella società frantumata e atomizzata. Quel lusso acquisito oggi non solo dai pochi detentori della ricchezza, ma, nella polarizzazione crescente, agognato anche dalla massa generalizzata di impoveriti individualizzati che non sanno più di esserlo. La gente comune, distrutta dai social media, non esiste più.
A volte, diceva or non è molto la leader di uno storico sindacato, viene da rimpiangere quei presidenti di Confindustria come Gianni Agnelli, che, pur nella durezza delle loro posizioni, hanno sempre riconosciuto il valore del lavoro e la tutela del salario.
Penso alla “personalizzazione” della Fiat 130 Familiare dell’Avvocato, che non sapeva ancora di “customerizzare”, la semplicità del fascione di legno applicato aggiunto sulla fiancata, come nelle vetture country americane, e soprattutto la cesta di vimini sul portabagagli, per alloggiare gli sci.
Con quella macchina, anche Mattei sarebbe andato a pesca volentieri.
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….era una struttura ormai abbandonata a se stessa e Lapo gli ha ridato vita con un progetto rivoluzionario per noi italiani!
La tivvu’, la scuola, la partitocrazia, il corporativismo sindacale, il non-capitalismo di stato e di famiglia erano cosi’ virtuosi? Non massificavano, disintegravano e illudevano anch’essi pur in modo diverso? Mattei aveva glamour anche perche’ era spregiudicato uomo di potere e non se ne pentiva; Agnelli aveva glamour anche perche’ era egoista, anaffettivo, femminaro, curioso, capriccioso, opportunista, prepotente e non lo nascondeva. Teniamoci i nostri Cucinelli.
Tanti rifornimenti in Italia fatti realizzare da Enrico Mattei sono diventate strutture protette uno si trova a Matelica.