di Enrico Marcucci
Will Caster (Jhonny Deep) è uno tra i più rinomati e geniali ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale da anni impegnato nella creazione di PINN, una macchina senziente con le stesse causalità del cervello umano, senza limite di durata, in grado di soggiacere alle esigenze più svariate dell’umanità. Quando l’attentato del Rift – gruppo terroristico contro lo sviluppo dell’intelligenza artificiale- lo condanna a morte con un proiettile al plutonio, decide, su aiuto e consiglio della moglie Evelyn (alias Rebecca Hall) di collegare le facoltà della sua mente a PINN, tentando di mantenere ed ampliare le proprie capacità intellettive. L’esperimento ottiene i suoi risultati inaspettati. PINN – o meglio Will- istante dopo istante riesce a potenziare le proprie facoltà e conoscenze inserendosi come gli pare e piace nei circuiti Internet di tutto il Pianeta. Inizia così, dal progetto della sua sopravvivenza virtuale, quello di un nuovo futuro, di una nuova possibile realtà esistenziale originata dalla rete. Oltre al fronte terroristico che tenta in tutti i modi di sopprimerne l’azione espansiva ottenendo esiti opposti, è l’altro artefice del software, lo scienziato Max Waters (Paul Bettany), non che migliore amico di Will, che si rende conto in prima della pericolosità di tale invenzione. Gli avvisi di un amico, sebbene scienziato anch’egli, non fermano una donna innamorata ed Evelyn, scampata ad uno dei tanti attentati del Rift, da il via altrove all’espansione vera e propria…
“Immaginate che il vostro cervello sia improvvisamente in grado di connettersi a Internet, di avere quindi accesso a qualsiasi informazione che contiene – finanziaria, medica, politica… Cosa fareste con questo tipo di conoscenza, questa specie di potere assoluto? Lo usereste per il bene comune o a vostro vantaggio o per tutt’altro? Questo film offre agli spettatori l’occasione di chiedersi che tipo di scelta farebbero”. Parole di Wally Pfister -direttore della fotografia prescelto da Christopher Nolan e premio Oscar per Inception (2010)- che dai confini di questa nuova scienza, di un futuro ipertecnologico e non troppo lontano dal nostro firma il suo approdo da regista nelle sale cinematografiche internazionali grazie alle sceneggiature dell’esordiente Jack Plagen e la resa di un cast fenomenale. Avendo diretto la fotografia di ogni film di Nolan (il quale affermò che sarebbe stato il film perfetto per l’esordio in regia del suo storico collaboratore riservandosi un ruolo da produttore esecutivo) a partire da Memento (2000) a The Prestige (2006) a Il cavaliere oscuro – Il ritorno (2012), non ci sorprende di trovare attori del calibro di Morgan Freeman, nel ruolo dello studioso e ricercatore Dr. Tagger, Cillian Murphy, in quello dell’agente dell’FBI Buchanan e la sopracitata Rebecca Hall accanto alle versatili personalità di Bettany e Deep, già insieme su altri set in precedenza. Certo, il contorno della trama descritta poc’anzi potrebbe inizialmente risultare tradizionale, e ben poco innovativo lo scenario da cui l’operazione su celluloide prende le mosse, si pensi alla serie televisiva statunitense degli anni ’80 Max Headroom dove pure troviamo un protagonista virtuale all’interno di uno schermo, o quella apocalittica di The Walking Dead fino all’indagine su un possibile rapporto affettivo tra uomo e intelligenza artificiale dell’ultimo film di Spike Jonze, Lei (2013).
Ma a guardare meglio e mettendo da parte alcune voci della critica che additano a Pfister l’aver optato per un progetto sicuro -nella scelta del contesto e della fotografia- mal riuscendo nell’impresa, il film s’inserisce a pennello in quella teoria vingeana della “singolarità”, nella lotta tra uomo e realtà artificiale che finisce con la collettiva perdita di coscienza. Teoria futurologica secondo cui l’unione dell’intelligenza umana a quella artificiale di una macchina o di un computer, sarà in grado di concepire una nuova civiltà governata dalla rete con illimitate capacità di raccolta dati ed espansione; ove l’essere umano, dapprima artefice ed essere superiore, viene ridotto ad una sottospecie di automa. Ed è nell’intersezione conoscenza-coscienza (già prima di morire Will declama ad una sua conferenza “Io non voglio cambiare il mondo. Mi accontenterei di prima capirlo.”) che il neo regista modifica l’approccio ai temi portati in atto senza restringere il campo d’azione unicamente intorno al divario bene-male (cosa sia giusto o sbagliato?) ma piuttosto riconducendo il tutto ad un’unica matrice, a quella lotta propria di ognuno tra realtà ideale e realtà effettiva; che, se condizionata oltre il proprio volere la prima, può diventare deleteria per molti: in questo caso per l’umanità intera. Infatti –Will- come afferma il suo stesso interprete Jhonny Depp in una intervista “è una brava persona che tenta di ottenere la trascendenza perché ha a cuore gli interessi del mondo. Ma quando diventa così potente, quando ha accesso a tutte le informazioni su Internet e crede nei metodi che applica, diventa molto difficile fermarlo. Chiunque, con un tale potere di controllo, anche se ha le migliori intenzioni, beh… troverà sempre qualcuno che la pensa diversamente. Nel caso di Will, forse è troppo tardi per fermarlo”. Nel film tale osservazione trova conferma dal ripetersi del breve scambio di battute: “Può dimostrare di avere coscienza di se? –domanda il vecchio studioso Tagger (Freeman) all’effige virtuale dello scienziato nello schermo. Risposta: – E’ una domanda difficile Dr. Tagger. Lei può dimostrarlo?” In effetti date le innumerevoli capacità curative e rigenerative, trascendenti appunto, raggiunte dalla nuova intelligenza artificiale, sembra ormai che tra uomo e macchina non esistano differenze sul piano cosciente quanto più invece su quello d’azione; tale distacco risulterà chiaro quando si verrà a sapere che Will, oltre a guarire, connette ogni nuovo paziente in rete -quindi al proprio volere- essendone oramai il padrone indiscusso. Anche Evelyn, la moglie, nonostante i risultati ottenuti dal nuovo marito artificiale, è ormai stanca e sola oltreché impaurita da che la macchina assume istante dopo istante sempre più potenza e fa e disfà a proprio piacimento senza tenere conto della presenza di un anima e un’emozione in chi le sta attorno. Sarà infatti Evelyn infine, conscia dello stato dei fatti, a rendersi strumento risolutivo per il bene dell’umanità. Non avendo consapevolezza effettiva né di sé ne del mondo e del limite, Will risulta una specie d’onnipotenza terrestre che tentando di ampliare gli orizzonti della specie umana ne chiude man mano ogni contorno.
Questo primo lavoro da regista per Pfister sembra perciò, a nostro parere, assolutamente da correre a vedere poiché aumenta di respiro facendoci riflettere sul fatto che un futuro migliore è possibile davvero soltanto se ognuno assume consapevolezza di essere parte di uno stesso “tutto”, di uno stesso fine, quel bene comune che non può essere manovrato secondo il volere di uno, ma esclusivamente grazie alla collaborazione e appartenenza di molti. Altrimenti si rischierebbe la dittatura di un macchinario, di un mezzo, e la morte per mano propria. Sebbene i chiaroscuri, la configurazione delle nuove tecnologie, i termini utilizzati e i costumi scelti per Trascendence siano molti simili a quelli utilizzati nella saga de Il Cavaliere Oscuro, il connubio degli stessi con le riprese ravvicinate nei dialoghi o sulle geometrie esatte dei macchinari, o ferme ancora a contemplare il lento gocciolio dell’acqua su una foglia, non esaltano certo Pfister per originalità, ma piuttosto centrano perfettamente gli intenti dello stesso in maniera del tutto precipua. La sicurezza dei personaggi e le curvature loro affidate dallo stesso Pfister, ognuno visto dal suo caleidoscopio emotivo e caratteriale, sembra risultare particolarmente adatto alla resa dei temi proposti. Vogliamo rivolgere particolare attenzione ad una lettura di questo film volta al concetto etico-filosofico di coscienza intesa come recupero della consapevolezza di sé. Nella ripresa concettuale di Pfister sono stati d’aiuto inoltre gli studi del filosofo statunitense John Searle ( noto per l’esperimento de “La stanza cinese”), ove viene accomunata, come detto sopra, la coscienza alla consapevolezza di sé. In conclusione, accorre a sostegno di quanto detto e a chiarire ulteriormente lo sguardo portato nella sale da questo nuovo regista, una stessa citazione di Searle: «La coscienza consiste in una serie di stati e processi soggettivi. Essi sono stati di consapevolezza di sé, interiori, qualitativi e individuali. La coscienza è allora quella cosa che comincia ad apparire al mattino, quando dallo stato di sogno e di sonno passiamo allo stato di veglia e permane per tutta la durata del giorno fino a sera, quando, tornando a dormire, diventiamo incoscienti. Questo è per me il significato del termine “coscienza”».
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