di Filippo Davoli
Corso della Repubblica a Macerata. Sulla destra, invecchiato bene…, un piccolo negozio di alimentari intitolato Ermete Qualità. Dentro la vetrina, una rosetta in polistirolo gigantesca; a lato della porta, una piccola bacheca recante la ricetta del giorno, rigorosamente in dialetto maceratese: “vuoi mettere presentare i tagliolini pelosi o invece li tajulì pilusi?” – spiegava in una battuta il titolare del negozietto.
Si chiamava Mario. Mario Buldorini. L’Ermete che intitolava l’esercizio commerciale era suo padre. Tuttavia, molte generazioni di ragazzi che passeggiavano instancabilmente tra le 18 e le 20 per il Corso erano convinti che Ermete fosse lui. E invece no. Se un altro Ermete c’era in famiglia – e c’era… – questo era il fratello minore di Mario, Ermete jr., professione musicista.
La bottega dei Buldorini offriva il meglio delle specialità locali (tra cui i celeberrimi supplì, spuntino irrinunciabile del pre-cena) insieme al meglio dei prodotti di qualità. C’erano, dietro il bancone, ancora armadietti e cassettini di cinquant’anni prima, con le merci sfuse dietro il vetro; e per tirar giù dalla sommità della mobilia le bottiglie di vino o di olio, Mario si serviva di una pinza telescopica. Il tragitto da lassù al bancone era motivo di trepidazione per ogni avventore, come quando al circo si osserva a testa in su il numero particolarmente arduo di un trapezista. Ma Mario era un esperto della manovra; e nonostante l’età che avanzava (chiusero il negozio quando lui aveva già più di ottant’anni), nonostante il lieve ma sempre più certo tremolio degli arti, l’operazione andava regolarmente a buon fine.
Da Ermete Qualità lavoravano in tre: Mario, il primogenito nonché erede e titolare dell’esercizio; Margherita, sua sorella; e Rita, moglie di Ermete jr. detto Mimì; il quale non indossava il camice bianco degli alimentaristi, ma stazionava regolarmente in negozio, su una sedia proprio a ridosso del bancone.
Ma noi oggi non stiamo onorando solamente un bravo commerciante di tanto tempo fa. E nemmeno, solamente, un eccellente alimentarista col talento della scrittura dialettale (delle sue ricette si sono fatte molte e molte ristampe). La famiglia Buldorini, infatti, era sui generis. Anzitutto, Mimì era stato l’unico a sposarsi; non aveva avuto figli e continuava a vivere, con la moglie, nella casa paterna, ubicata all’inizio di Via Crescimbeni: una casa spaziosa, sobria e accogliente, con una bella sala dove dopo cena iniziavano i “concerti” a base di dischi, musicassette, e non di rado l’intervento gli interpreti di casa (Mimì, diplomato in clarinetto ma innamorato del pianoforte; e Rita, soprano, già allieva di Lino Liviabella, “che diceva che avevo una bella voce” – ricordava lei, non senza una puntina di giusto orgoglio).
I Buldorini andavano d’amore e d’accordo, sia in negozio (impresa nell’impresa, ma che a loro riusciva naturalmente) e sia a casa.
In più, Mario dipingeva, si dilettava con le sue sculturine di polistirolo, era innamorato delle forme e della loro spazialità. Ma
non solo questo: forse non tutti sanno, infatti, che fu proprio lui il fondatore (o il co-fondatore, insieme a Tano e Monachesi) del celebre “Gruppo Boccioni”, espressione mirabile del Secondo Futurismo, all’interno del quale diedero i propri primi frutti nomi, appunto, come Bruno Tano, Sante Monachesi, Umberto e Alberto Peschi, Rolando Bravi, Amorino Tombesi, Wladimiro Tulli. Gruppo del quale facevano parte anche personaggi come Giovanni Sabalich nonché quel Mario Monachesi ribattezzato da Marinetti Chesimò, primo maestro di canto di Mario Del Monaco; e Chesimò, proprio con Mimì Buldorini (con cui aveva anche studiato insieme al Conservatorio di Pesaro) diede vita ad una breve ma significativa stagione di musica secondo i canoni futuristi, siglati vent’anni prima da Balilla Pratella e Luigi Russolo. I quali – specie il primo – erano stati più formidabili ideatori che convincenti creatori. D’accordo: Russolo aveva creato l’intonarumori, uno “strumentaccio” atto alla riproduzione – appunto – dei rumori; ma Pratella, memorabile autore de L’aviatore Dro, subiva fortemente l’influenza compositiva di Pietro Mascagni, di cui era stato allievo, nonostante l’intenzione tutta futurista di emanciparsi dalla tradizione.
Negli anni ’30, invece, Chesimò e Mimì Buldorini avevano messo in pratica molto più attendibilmente quei dettami, lasciandoci purtroppo pochissime ma convincenti prove di musica futurista.
Il “Boccioni”, come Mario Buldorini mi ha raccontato tante volte, era nato sulla spinta di un gruppo di ottimi amici trovatisi a vivere a Macerata una stagione di grandi fermenti culturali (Macerata è una città a moti ondosi: conosce periodi di stasi ed altri, invece, di grande propulsività), ma nella cornice cupa e fosca del Fascismo (e i nostri futuristi erano tutti antifascisti, dalla prima ora. Tulli, ad esempio, fu pure partigiano).
L’anima di quella formidabile intuizione d’arte, tuttavia, fu quella di Bruno Tano; a lui – ricordava Mario – si deve l’arrivo di Marinetti in città, ospite del Gruppo. A lui si devono gli stimoli più forti perché quell’insieme di amici, che si frequentavano e si volevano bene già da prima, diventasse una delle migliori espressioni artistiche del periodo.
Il Gruppo Boccioni ha dato i natali ad artisti di cui alcuni hanno lasciato il segno a livello nazionale e internazionale, anche evolvendo la propria cifra stilistica: penso a Umberto Peschi (una sua scultura l’aveva acquistata Pier Paolo Pasolini), a Sante Monachesi, a Wladimiro Tulli; altre voci hanno operato più sotto traccia, ma non meno interessantemente. Chissà, per esempio, che fine avrà fatto la pellicola cinematografica che in quegli anni filmò Amorino Tombesi (la figlia Manuela si rammarica di non averla mai ritrovata)? Chi si ricorda che dentro il palazzo della Provincia, in una delle sale del piano Terra, c’è uno splendido affresco di Bruno Tano, morto a soli 29 anni presso il civico ospedale?
Ermete Qualità era la memoria storica e vivente di tutta quella temperie: ovviamente, le singole prove degli artisti le hanno poi studiate e documentate fior di critici, non ultima la maceratese Anna Caterina Toni, che a quella stagione ha dedicato un bellissimo e circostanziatissimo volume. Ma anche i fratelli Torresi, ne La città sul palcoscenico (non ricordo il numero preciso del volume, perché ne stamparono più di uno). Ma la memoria umana, i rapporti quotidiani, gli aneddoti, gli affetti, finanche le paturnie, tutto quel mondo era tenuto in vita nel negozio dei Buldorini; presso il quale stazionava regolarmente anche Ivo Pannaggi, nei suoi ritorni dalla Norvegia, e poi negli ultimi anni di vita, essendo tornato a morire nella sua città. Certo, Pannaggi faceva parte della generazione precedente. Ma l’amicizia di famiglia coi Buldorini, nonché la qualità di quel Gruppo Boccioni, lo portarono spesso a compromettersi volentieri con gli amici maceratesi.
Peraltro, Ermete Qualità non terminava al piano terra: da una scaletta, situata sul retro, si poteva accedere alla cucina. Ma il nome di quell’anfratto semibuio e colmo di buoni odori era Pensatoio. Mimì, quando non sedeva di sotto, stava regolarmente là dentro. Mario vi conservava anche alcuni documenti rarissimi sulle origini della Compagnia Teatrale “Oreste Calabresi” (il suo regista storico Angelo Perugini, infatti, era il fratello di Rita, la moglie di Mimì). Nel Pensatoio si andava a discettare di pittura e di poesia, di musica e di fotografia, ma anche di ingredienti (perché anche la cucina è un’arte).
A Mario piacevano le moto, e in particolare i ragazzi quando impennavano: “Lo vedi” – mi diceva entusiasta – “lo vedi come domina il mezzo? È un incoraggiamento pieno di futuro, quanto mi sarebbe piaciuto… e che peccato essere nato troppo presto!”. Aveva già la sua vecchiaia in fronte, ma lo sguardo era più giovane del mio, se io ero invece già pronto a registrare le sue contumelie di fronte a tutto quel fracasso.
Spesso lo incrociavo in Via Gramsci, immobile e trasognato, a fissare il contorno del palazzo che si staglia al termine della Galleria Scipione e restringe la strada, di fronte alle Poste: “Non chiedermi perché, ma io sono innamorato di quella casa, di come ci cade il sole al tramonto! Non so spiegare quello che provo, ma mi viene voglia di disegnare!”; e a Natale arrivavano le sue cartoline disegnate con gli auguri. Pezzi unici per gli amici più cari.
Sbagliò soltanto una profezia, Mario, allorquando affermò ai microfoni dell’allora “TeleMacerata” (per la quale ero andato a intervistarlo nella bottega) che il passeggio per il Corso esisteva da prima che lui nascesse e che pertanto non sarebbe finito mai. Se si invertisse la rotta di decadimento e di abbandono, magari grazie anche ai rinnovati intenti popolari, sarebbe bello intestare Corso della Repubblica proprio ai Fratelli Buldorini: gente semplice, con spiccato piglio artistico ma sempre grande e squisita umanità. E’ la maceratesità che non vorremmo mai perdere.
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Bellissima descrizione… grazie per questo nostagico tuffo nel passato…