Il fabrianese Alessandro Moscè è noto nell’ambiente letterario, nel quale vanta una appassionata militanza critica ed anche creativa. Voce poetica tra le migliori della sua generazione, si è rivelato anche efficace narratore con il romanzo autobiografico Il talento della malattia (Avagliano, 2012). Un romanzo che ha fatto parlare tutta Italia, tanto che sempre più insistenti si fanno le voci che parlano di una riduzione filmografica tratta dalla singolare storia narrata nel libro.
Alessandro, infatti, nell’età dell’adolescenza si è ammalato di una grave forma tumorale ossea, dalla quale – tra i pochissimi che ce l’hanno fatta – è totalmente guarito, senza subire menomazioni di sorta.
Il suo viaggio nell’inferno della sanità è accompagnato da una figura antagonistica, Giorgio Chinaglia, a cui Moscè, tifoso laziale, si è in un certo senso aggrappato per contrastare il pensiero feroce della malattia e dei suoi esiti.
Ne vien fuori un libro davvero bello. Bello e basta. Perché quando la vita incontra la morte, sia pure riuscendola ad evitare, la morte paradossalmente illumina la vita. E Moscè, che sa fare bene il suo “mestiere” (sempre che la scrittura possa essere considerata tale), qui riesce eloquentemente a mettere a frutto i suoi strumenti affinché emergano, senza filtri, lo struggimento del ricordo o la nudità del sentire. La lettura di questo romanzo ci ha toccati e commossi: Il talento della malattia è un inno alla vita. Anche grazie all’angelo del calcio che, a fianco dell’autore, ha significato propositivamente – per quanto inconsapevolmente – la vittoria sul sarcoma.
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