Intellettuali e impegno (un ossimoro?)

Con questo intervento - che auspica l'inizio di un dibattito - Edilio Giuseppe Venanzoni inaugura la sua collaborazione con noi

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Edilio Giuseppe Venanzoni

 

 

di Edilio Giuseppe Venanzoni

 

In una recente intervista, lo scrittore Antonio Scurati (ottimo narratore, “Il rumore sordo della battaglia” è forse uno dei romanzi italiani più convincenti negli ultimi vent’anni) riprende con vigore un refrain tipico soprattutto del secolo scorso: lo scarso impegno degli intellettuali in politica. L’autore accusa i suoi colleghi, in particolare quelli di sinistra, di non esporsi in prima persona riguardo il difficile momento che il nostro paese sta attraversando. Ma è davvero così? Davvero gli uomini (e le donne) di cultura rifuggono dall’impegno o è piuttosto la politica stessa a scansarli? Si tratta solo di loro ignavia o della paura che prova il sistema nei loro confonti? O, peggio ancora, di scarsa fiducia nelle loro capacità d’incidere realmente?

Poeti e artisti peraltro sono spesso stati “usati” dal potere, fin dall’antichità: Augusto che costrinse Virgilio ad apologizzarne le origini, i papi e i signori del Rinascimento che praticavano il calciomercato dei maggiori pittori, scultori e architetti dell’epoca, i monarchi assoluti del Settecento che li mantenevano a corte, i dittatori del Novecento che ne adottarono le capacità mediatiche… Di contro, qualcuno ogni tanto si ribellava: nella Primavera dei Popoli di metà Ottocento, ad esempio, fecero sentire la propria voce indomita. Da Byron, che andò a morire a Missolungi per l’indipendenza della Grecia, fino ai nostri Manzoni e Verdi, che opportunamente (ma non con meno merito, altrimenti sarebbero immediatamente incorsi nella censura austriaca) celarono l’occupazione asburgica sotto le mentite spoglie della dominazione spagnola di due secoli prima o di quella babilonese sull’antico popolo ebraico. Nei teatri e per le strade si cantava il “Va’ Pensiero”, parafrasandone “O mia patria” con “O mia Italia”, e sui muri si scriveva “Viva Verdi”, dove il cognome del compositore era il celeberrimo acronimo di Vittorio Emanuele Re D’Italia. Anche durante il Ventennio si sollevarono delle voci di resistenza civile, ma sappiamo come purtroppo andava a finire: esilio e confino, se si era fortunati. I regimi totalitari nazista e sovietico andavano ancor meno per il sottile, i roghi di libri e di arte “degenerata” e il trattamento riservato ai vari Pasternak e Solzenicyn stanno ancora a dimostrarlo.

Adesso però, in Italia, è quasi una tabula rasa. E mi chiedo il perché.

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Camus

Qualche anno fa Umberto Eco dichiarò che avrebbe cambiato nazione di residenza se avesse vinto di nuovo le elezioni Berlusconi, al suo grido si associarono in parecchi, ma ovviamente era solo una boutade. In ogni caso non era certo una presa di posizione “impegnata”, semmai una sorta di Aventino, una resa sdegnosa alla Cambronne.  In Italia gli ultimi a mettersi in gioco sono forse stati la Fallaci, con la sua discussa crociata antislamica (ma lì c’era tutta la pressione emotiva post 11 settembre a motivarne l’afflato), e Norberto Bobbio, che però è stato più una figura totemica che realmente partecipativa. Risalendo agli anni Settanta, non si può non citare Pasolini, ma per il resto? Il nulla o quasi. Oggi gli intellettuali pare si limitino ad “appoggiare” i politici, non sembrano ambire più a sostituirli: all’immaginazione “al” potere si è sostituita l’immaginazione “con” il potere e neanche tanta a dir la verità. Se pensiamo ai nostri cugini transalpini c’è da deprimersi, in Francia da sempre la cultura ispira o contesta la politica: basti pensare ai vari Camus, Foucault, De Beauvoir, fino al controverso Bernard-Henry Lévy.

Qui giusto i Fo e gli Sgarbi ogni tanto fanno sentire la propria voce mediaticamente (“sentire” nel caso del critico d’arte è un eufemismo, consideratane l’ugola), ma per il resto ben poca cosa. Inoltre ci sarebbe forse da ridefinire il concetto medesimo di intellettuale e se in giro ce ne siano poi di “autentici”… ma facciamo finta di sì: allora perché non si fanno vivi? Viene in mente la famosa frase che pronunciò Enrico Fermi riguardo l’ipotesi di vita extraterrestre: a chi gli ribadiva l’impossibilità matematica che in un universo tanto grande la vita si fosse sviluppata solo su un pianetino minore e che dovevano per forza esistere miriadi di altre civiltà, rispose: “Ma se l’universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti?” Ecco, se il mondo, l’Italia, è colmo di intellettuali, “dove sono tutti quanti”? Perché non si interessano concretamente del vissuto dei cittadini? Perché si limitano allo sport nazionale (ancor prima del calcio) della stucchevole lamentazione reiterata, invece di apportare il loro “prezioso” contributo?

Quale contributo peraltro? Certo, ipotizzare un poeta presidente del consiglio apparirebbe una forzatura (qualcuno potrebbe obiettare che peggio non potrebbe fare, ma va be’), però un’esposizione più ampia, incisiva, dell’”homo vere sapiens” sarebbe auspicabile: una sorta di consulenza propositiva per un governo che capisca finalmente quanto l’etica possa essere figlia dell’estetica, che ciò che è “bello” spesso è anche “buono”, il classico kalòs kài agathòs. Ecco, all’immaginazione al potere potrebbe proprio sostituirsi tale concetto di kalokagathia… mentre all’opposizione la voce dell’intellettuale dovrebbe occupare la sua naturale funzione di vigilanza morale e, all’occorrenza, di nobile cassa di risonanza per una forma civile e “alta” di contestazione democratica.

Restringendo il focus sulle realtà locali, la querelle appare ancora più legittima: come possono contribuire delle figure di riferimento

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Foucault

culturale all’amministrazione di una città medio-piccola, come nella fattispecie Macerata? Lo vogliono intanto? Perché più passa il tempo, più risulta evidente come spesso gli intellettuali nostrani ambiscano al massimo all’insediamento negli orticelli comodi e benestanti di università e lirica, tralasciando completamente, o quasi, altri possibili luoghi e forme di impegno sociale. Certo, in città c’è chi si impegna comunque, assolutamente meritorie le svariate iniziative dedicate ad arte, letteratura,  poesia… ma tale presenza poi non si riscontra nella fase amministrativo-gestionale, nella strutturazione di un concreto progetto cittadino: ad esempio, riguardo il problema della cosiddetta vivibilità del centro storico, una voce alternativa a quella di negozianti e “negoziatori” potrebbe offrire spunti interessanti, perché non farla sentire? Guarda caso, le giornate degli “aperitivi culturali” hanno animato come forse non si vedeva da anni il cuore della città, perché non reiterarle, approfondendone precipuamente la denotazione appunto “culturale”? Penso inoltre a vari edifici storici preclusi o quasi al pubblico, palazzi meravigliosi che potrebbero essere la sede ideale per ospitare iniziative di spessore; per non parlare di collezioni e musei che degli esperti del settore saprebbero valorizzare, anche economicamente. Ovviamente c’è molta responsabilità in questo della medesima componente politica cittadina, che “sfuga” da sempre nella Civitas Mariae chi osa pensare in maniera “creativa”, al di là del mattone, del clientelismo, dei libri contabili e dei compromessi sempre meno storici. Però è anche possibile che qualche referente amministrativo sia solo sfiduciato, e magari andrebbe stimolato a pensare meno “hungry” e più “foolish”, citando Jobs. Vero è che gli stimoli giungono a chi un minimo sia disposto a recepirli: se la radio non è accesa il segnale non arriva, per quanto la trasmissione possa essere meravigliosa.

Come sempre, la verità sta nel mezzo: da un lato politici spesso diffidenti, dall’altro intellettuali a volte poco pragmatici. Trovare un punto d’incontro non è impresa titanica, ma occorre sforzarsi, “impegnarsi” davvero. Altrimenti i rimpianti continueranno tristemente a sedimentare sul famigerato lastricato infernale delle buone intenzioni.



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