Tarcisio Carboni: un pastore
con l’odore delle pecore

QUID CULTURAE - Prima puntata della rubrica "Ritratto" dedicata a personaggi delle Marche che non ci sono più

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Mons. Tarcisio Carboni

di Filippo Davoli

Francesco Tarcisio Carboni, nato a Ortezzano (AP) negli anni ’20, faceva parte dell’Arcidiocesi di Fermo, fino al giorno in cui divenne Vescovo di Macerata e Tolentino nel 1976, per sostituire Mons. Ersilio Tonini, destinato a Ravenna. Tarcisio Carboni era un uomo. Che divenne prete, d’accordo (e poi vescovo, d’accordo). Ma che rimase uomo. Un uomo innamorato di Dio. Mons. Luigi Conti, che ebbe a succedergli sulla cattedra episcopale, lo apostrofava sempre come “il santo Vescovo Tarcisio”. Non era solo un modo di dire, una formula di rispetto per il suo immediato predecessore. Era l’espressione sincera con cui un altro uomo (fattosi prete e divenuto vescovo) sottolineava l’eccezionalità di un altro uomo, in cui la grazia soprannaturale aveva dato esiti eccellenti, per niente comuni.

Tracciare il ritratto di Mons. Tarcisio Carboni è quanto di più difficile possa esservi: la semplicità dell’approccio con lui – che è stato pastore di tutti e per tutti – è complicata da un apostolato quotidiano e fittissimo, spesso segreto, vissuto fino all’ultimo respiro senza risparmio (né di sé, della sua persona; né dei suoi averi personali). Ci viene facile, addirittura lampante, trovare nelle parole del Papa Francesco, a proposito delle qualità che dovrebbe avere un vescovo, la risposta chiara e concisa al nostro dilemma: Tarcisio Carboni è stato un pastore con l’odore delle pecore, uno che – se lo cercavi – lo trovavi più spesso alle estreme periferie che non in episcopio. In questo giocava, presumibilmente, anche la sua storia personale, l’essere stato missionario in Brasile, dove prometteva a sé stesso (e ribadiva a chi lo frequentava più assiduamente) di tornare non appena fossero state accettate le sue dimissioni per anzianità.

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Il Cardinal Ersilio Tonini

 

Ma il vescovo Tarcisio, sebbene nella piccola diocesi di Macerata e Tolentino (che sotto il suo episcopato venne unificata con Recanati, Cingoli e Treia), era rimasto fedele alla sua vocazione missionaria, aveva continuato ad esercitare la carità, l’apostolato spicciolo, l’evangelizzazione a tappeto, l’accoglienza di tutti gli ultimi, l’esemplarità di una fede autentica vissuta senza pause e senza infingimenti. Anzitutto nei modi.

 

La diocesi che raccolse, veniva dritta dall’esperienza dirompente della prima nomina episcopale di Ersilio Tonini, un “vulcano” che amava stare in mezzo alla gente, sia a piedi che con la sua automobilina sfrecciante su per i vicoletti a tutte le ore. I maceratesi, si sa, sono tanto allegri quanto schivi, tanto disponibili quanto sospettosi: Mons. Tonini, tuttavia, li aveva ampiamente conquistati con quella sua affabilità operativa, tutta romagnola, e il fatto che venne trasferito così presto (il precedente Mons. Cassulo era morto tragicamente, schiacciato dall’autobus nella curva di Palazzo Buonaccorsi)  aveva acceso una vivida preoccupazione nella gente: chi verrà adesso? E in quell’adesso arrivò un altro vulcano, che per di più aveva pure l’accento piceno, sia pure con una lieve cadenza fermana. Uno ancora più “dei nostri”, dunque; con cui potersi fermare a fare quattro chiacchiere, a cui confidare una spina e percepire di essere ascoltati e partecipati davvero; uno che dopo, a distanza di tempo, si ricordava tutto e chiedeva come andavano le cose, specie se nel frattempo non aveva oggettivamente potuto portare sollievo.  Del resto, come intendesse il ruolo vescovile l’aveva dichiarato in una delle sue prime omelie:

“Il Vescovo oggi dovrebbe essere pastore e padre, più che superiore e ispettore; animatore e unificatore, più che esecutore e controllore; segno di verità e di grazia, più che segno di prestigio e autorità”. (Omelia di Pasqua, 1976)

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Giovanni Paolo I e Mons. Tarcisio Carboni, visita ad limina, 1978

A Mons. Tarcisio Carboni si devono alcune intuizioni importanti: anzitutto la richiesta d’apertura del processo di beatificazione di Padre Matteo Ricci. Fu il primissimo – e solo – a rendersi conto dell’importanza di quella testimonianza d’evangelizzazione nella lontana Cina. Terra ricchissima e difficilissima, dove dopo il Padre Ricci il cristianesimo conobbe battute d’arresto sempre più vistose, fino all’attuale ardua situazione. Carboni, che aveva a cuore la missionarietà della Chiesa, aveva intuito in Padre Matteo una sponda efficace per tentare di aprire un abbrivio in quella terra lontana e estremamente diffidente. Già verso la fine del suo episcopato, colse al volo l’opportunità di aprire in diocesi un seminario diocesano e missionario “Redemptoris Mater” (attualmente ce ne sono 100 in tutto il mondo; all’epoca, quello di Macerata fu uno dei primissimi, dopo quello di Roma), dedicato specificamente all’evangelizzazione della Cina e, più in generale, dell’Asia. La prima pietra del nuovo Seminario venne benedetta in Cattedrale da Giovanni Paolo II, nella sua visita del 1993. Come Mosè, però, che vide la terra promessa da lontano ma non riuscì ad entrarvi, il vescovo Tarcisio vide arrivare i primi seminaristi, li crebbe e ordinò nei ministeri minori, ma venne richiamato in Cielo prima di riuscire ad ordinare i primi presbiteri (attualmente, Macerata ordina più preti di quanti ne ordinino tutte le Marche messe insieme).

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Giovanni Paolo II e Mons. Tarcisio Carboni

Se il Concilio Vaticano II auspicava l’attenzione alle nuove forme di presenza che lo Spirito Santo suscita nella Chiesa (i cosiddetti nuovi carismi), Mons. Carboni seppe incarnare quell’auspicio: la “sua” diocesi, nonostante le ridotte dimensioni, si fortificò di numerosissimi carismi. Gruppi e movimenti a forte impegno laicale, nuovi ordini religiosi, formazioni giovanili parrocchiali spontanee, in una grande primavera di cui lui sapeva essere direttore d’orchestra non invasivo, sebbene sempre presente e vigile, incoraggiante e paterno anche quando gli era chiesto di correggere. Sempre amorevole, insomma. Teologicamente rigoroso, ma umanamente amabile. “Di un’umiltà rara, senza fragori”, com’ebbe a commentare un amico scrittore.

Curiosamente, nelle sue omelie – come pure nei suoi documenti – aveva conservato uno stile diretto, semplice, catturante: usava, proprio come fa l’attuale papa, tre punti fondamentali su cui riflettere. Tre indicazioni forti, non una di più e non una di meno. Usava questa formula con grande naturalezza, riuscendo comprensibile ai più; mai distante o ampolloso, mai retorico, sapeva parlare al cuore di ogni singolo fedele. Non era un caso, crediamo, se alla fine delle sue celebrazioni amava percorrere la navata laterale della Cattedrale (per rientrare in episcopio passando dall’esterno) e fermarsi a parlare con chi aveva imparato ad aspettarlo, sul sagrato.

Erano piccoli momenti forti, occasioni di apostolato, incoraggiamenti a destra e a manca, instillazioni di quella fede buona, antica, radicata e spesso sopita, che aveva così modo di tornare alla luce, di verificarsi come qualcosa di vero e di attendibile. E così, di giorno in giorno, di anno in anno, Mons. Tarcisio aveva coagulato intorno a Cristo un nugolo sempre più numeroso di gente che, se anche non aveva fede, tuttavia provava rispetto e non si sentiva totalmente aliena dalle cose della Chiesa.

Carboni, tuttavia, aveva imparato ad esser prete in questa maniera non solamente negli anni brasiliani; già da prima, parroco a Porto Sant’Elpidio, aveva saputo farsi tutto a tutti; aiutava i muratori che aggiustavano il tetto della sua chiesa, più di una volta tornava a casa senza cappotto (perché per il freddo aveva preferito regalarlo a qualche povero di passaggio), non lesinava aiuti economici a famiglie che sapeva in difficoltà, spesso con corposi assegni (e quest’ufficio continuò a svolgerlo anche da vescovo), era insomma presente nella vita concreta della sua gente; testimoniava la sua fede, se necessario anche con le parole (per parafrasare una storica frase di San Francesco, riportata in auge dal Papa che porta il suo nome).

Testimone efficace, dunque. Ma anche apostolo della Parola di Dio, se è vero – come lo è – che il suo motto episcopale recitava “Praedica Verbum”, annuncia il Vangelo, parla di Cristo, evangelizza.

Consacrato nell’ordine di Madre Speranza di Collevalenza, lo troviamo anche tra i vescovi testimoni dei frutti di Medjugorie dove, recatosi in pellegrinaggio e messosi a confessare, ne ricava testimonianze che lo portano a scrivere:

“Quando visito un luogo di apparizioni non è per ammirare chiese e monumenti. Mi siedo in un confessionale e, dal tono delle confessioni, formo la mia convinzione. Sono stato a Medjugorje. Non sono andato a cercare i veggenti o i sacerdoti locali. Ho solo confessato per due giorni ed è stato sufficiente per convincermi che il Signore è presente a Medjugorje, e con Lui la Santa Vergine!” (Eco di Medjugorje, febbraio 1987). Il suo grande amore mariano si palesa anche nel rinnovato pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto, che ricomincia proprio durante il suo episcopato e con la sua benedizione.

 

Mons. Tarcisio non aveva autista. Anche la sua macchina (conformemente ai dettami del Papa attuale, ma ante litteram) era una Fiat Uno grigia che guidava lui, qualche volta anche rischiando a causa dei forti problemi di vista che aveva. Ma confidando nel Signore, Carboni partiva e raggiungeva chiunque e dovunque: c’erano raduni del Rinnovamento? Lui c’era. Si svolgevano convivenze dei Neocatecumeni? Lui ci andava. Gruppi mariani facevano rosari parrocchiali? Non mancava di certo il vescovo. Quelli dei focolarini organizzavano un evento? Il vescovo c’era. Cresime? Sempre. L’oratorio salesiano chiamava? Lui rispondeva. Con la sua Uno, andava su e giù per il territorio diocesano; qualche volta, al ritorno, suonava alla canonica di qualche parrocchia chiedendo al parroco se avesse un po’ di pane da dargli per poter fare cena (e così si fermava a mangiare – e qualche volta a dormire – da quello, dandogli conforto nelle difficoltà o condividendone le gioie).

Poi, quando a fine estate arrivavano le tradizionali feste cittadine, per le Canestrelle tornava a Macerata anche Mons. Tonini, che col suo successore maceratese aveva sviluppato uno splendido rapporto d’amicizia che amava coltivare in tutte le occasioni possibili. Erano, in fondo, della stessa pasta. Tonini, poi divenuto anche cardinale per meriti comunicativi, aveva forse una caratura più funzionale da un punto di vista massmediale; ma lo spirito era il medesimo: erano due pastori tout court, innamorati e innamoranti di Dio, consapevoli che, per uno chiamato a servire l’uomo, l’unico luogo dove esercitare il ministero è in mezzo agli uomini, e l’unico luogo dove trovare riposo è il Paradiso.

Nel 1995, probabilmente una delle poche volte in cui Tarcisio Carboni non guidava la sua auto, in un incidente stradale beffardo, il vescovo perse la vita. I componenti la sfortunata spedizione stavano recitando il rosario, in attesa di raggiungere l’aeroporto di Falconara, dove li attendevano altri vescovi marchigiani per andare al Convegno di Palermo. Lo schianto fu terrificante. Tuttavia, gli altri passeggeri rimasero miracolosamente illesi o con pochi graffi. Mons. Carboni, che sedeva vicino al conducente, perse la vita. I testimoni affermano che, ormai moribondo, l’unica parola da lui pronunciata (e ripetuta due volte) fu “Amen. Amen”.

La sua tomba, in primis nel campo del cimitero di Macerata e, attualmente, nella cappellina d’ingresso nello stesso cimitero – dove riposano i canonici della cattedrale – è a tutt’oggi ancora visitatissima dai maceratesi, rimasti legati a quest’uomo buono, a questo “santo vescovo” che ha vissuto tutta la sua esistenza con l’odore delle pecore addosso.

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Cenni biografici di Mons. Tarcisio Carboni

Ordinato sacerdote nel 1947, venne eletto, da Paolo VI, l’11 febbraio 1976 (Festa della Madonna di Lourdes), Vescovo di tutte e cinque le Diocesi autonome di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli e Treia, dove fece ingresso il 3 aprile successivo. Proveniente da una famiglia numerosa e dalle solide radici cristiane, Carboni ricoprì dapprima gli incarichi di parroco a Porto S.Elpidio e di direttore spirituale al seminario arcivescovile di Fermo, ma è sicuramente come missionario Fidei Donum che venne più volte elogiato. Nel 1970, infatti, don Tarcisio chiese ed ottenne di far parte di un gruppo di sacerdoti fermani missionari in Brasile, nella diocesi di Mogi das Cruzes, tra le migliaia di lebbrosi di Gopouva (Guarulhos), per i quali con i confratelli fondò il Pensionato di S. Francesco: qui visse fino al 1974, in una donazione totale e appassionata alla gente “più esclusa”. Richiamato dalla missione, fu dapprima vicario generale dell’Arcidiocesi fermana e, di lì a pochissimo, Vescovo di Macerata.

Un comitato spontaneo sta raccogliendo testimonianze su di lui. Eccone alcune:

“Uno dei ricordi piu’ belli e’ stato quando lo abbiamo incontrato in cima al gran canyon….eravamo in pellegrinaggio per arrivare a     Denver in occasione della Giornata Mondiale della Gioventu’ del 1993. Si è messo a cantare i salmi con noi, un vero giovane dentro.” (Stefano G.)

 

“C’è una foto che mia madre tiene come una reliquia! E’ stata scattata nel 1987, Mons. Tarcisio si era riproposto di far visita di persona ai malati della sua diocesi; così venne a trovare mia nonna. In quell’occasione con lui c’era il parroco del Duomo, Don Ivo. Fu un momento toccante nella sua semplicità familiare.” (Maria Cristina O.)

 

 

“Ho ritrovato la foto della visita di Mons. Tarcisio, qui in Patagonia, dove ora mi trovo: con le sue visite rendeva presente la diocesi di Macerata in questa terra. Come non ricordare il suo spirito missionario, la sua bontà e il suo sorriso… ancora ricordo il dolore di questa gente all’annunzio della sua morte.” (Alberico C.)

 

“Lui mi ha aiutato molto, grazie a lui oggi ho una famiglia e una nuova vita, grazie”. (Costanza M. C.)

 

“Mi ricordo quando venne a cena da noi. Abbbasava la sua persona per venire a contatto con tutti, ma al tempo stesso teneva alto il ruolo della Chiesa. Una Fede profonda, mai tiepida, che lo aveva portato in Brasile tra i lebbrosi, al servizio degli ultimi del mondo. Un ricordo che deve essere di esempio nella vita di tutti i giorni.” (Massimo S.)

 

“Un grande vescovo, un grande uomo, un grande amico.” (Marco M.)

 

“Era un tipo brillante. Durante un convegno, a proposito di quelli che vanno sotto il nome di ‘piani pastorali’, se ne uscì con una battuta formidabile: <Se manca l’ascolto dello Spirito Santo, quelli diventano presto pianti pastorali>! Grande risata generale e grande applauso. Ma quanta lungimiranza…” (Dante T.)

 

“Sono stato vice parroco a S. Maria della Pietà a Recanati alla fine degli anni ’80; la parrocchia è tenuta dai PP. Passionisti. Mi ricordo che mons. Tarcisio arrivava talvolta all’improvviso nella nostra comunità, e si fermava a pregare in Cappella con noi, e con molta semplicità si fermava a pranzo o a cena con noi. Quando veniva anche per qualche ministero, come l’amministrazione delle cresime, veniva per conto suo, senza il seguito di segretari o autisti. È un fatto che mi ha sempre creato una grande stima per questo pastore.” (Padre Giordano V.)

 

“Sempre gioioso nella proposta di fede, nella santità semplice, nella genuina e verace cordialità.” (Mons. Armando Trasarti, Vescovo di Fano)

 

“Occorre avere il coraggio di chiedere allo Spirito Santo che ci doni la sua semplicità, la sua visione nitida e chiara, per niente problematica, direi quasi connaturata, del godimento di Dio, dell’assaggio di Dio. E poi la sua carità verso i fratelli. La sua instancabile donazione alla Chiesa. (…) Avete avuto un Pastore che ci credeva davvero.” (Card. Ersilio Tonini)



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