Spazio pubblicitario elettorale

Eliminate tutte le Province
ora venga la buona politica

Le inutili rivalità fra Macerata, Ascoli e Fermo, la vittoria del professor Capotosti, gli enti non elettivi e il futuro del centro storico

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liuti-giancarlodi  Giancarlo Liuti

Nell’ottobre dell’anno scorso questo giornale si rese promotore di un pubblico dibattito presso la Camera di commercio a proposito di un tema che allora era di grande attualità: il decreto del Governo Monti sulla riduzione delle Province da ottantasei a cinquantuno e la conseguente abolizione della nostra. Ho detto dibattito ma in realtà fu un plebiscito, perché tutti gli esponenti istituzionali  e di partito che vi parteciparono furono d’accordo nel sostenere le ragioni storiche, culturali, economiche e sociali in virtù delle quali la Provincia di Macerata aveva il sacrosanto diritto di salvarsi (e immagino che la stessa unanimità in difesa di Ascoli o Fermo ci sarebbe stata se un’analoga iniziativa avesse avuto luogo ad Ascoli o a Fermo). In quell’occasione saltò fuori un’unica voce difforme: quella, via telefono, dell’autorevole giurista Piero Alberto Capotosti, già presidente della Corte costituzionale: attenzione, signori,  la linea per cui ognuna delle trentacinque Province a rischio di soppressione faccia leva sui propri pur validi ma particolari punti di forza è destinata al fallimento e molto più fondata sarebbe invece una linea comune, su scala nazionale, che eccepisse l’incostituzionalità di quel decreto.

 

Il giudice Piero Alberto Capotosti

Il giudice Piero Alberto Capotosti

Ebbene, otto mesi dopo la Consulta gli ha dato ragione: non si può metter le mani della “spending review” sulle Province col sistema delle soppressioni e degli accorpamenti se prima non si vara una legge di revisione dei sei articoli della Costituzione nei quali si parla, appunto, di Province (il più importante è il 114: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”). E il premier Letta ne ha preso atto annunciando che sarà percorsa la via indicata dall’articolo 138 sulle revisioni costituzionali: due successive deliberazioni di ciascun ramo del Parlamento a intervallo non minore di tre mesi l’una dall’altra e approvate a maggioranza assoluta nella seconda votazione, con l’eventualità, se la maggioranza non raggiunge i due terzi, che si debba ricorrere a un referendum. Dopodiché, tolta di mezzo la parola “Province”, la strada verso la creazione di enti intermedi (non elettivi, non sospetti di “casta politica”) fra Regioni e Comuni potrà avvalersi di una dialettica che tenga conto delle varie esigenze territoriali. Strada complicata? Abbastanza. E, soprattutto, lunga. Per conoscere il suo destino, dunque, la provincia di Macerata (e le altre, tutte con la lettera minuscola, tutte da riferire ad affinità di carattere territoriale) dovrà attendere un anno, probabilmente di più, o magari in eterno.

Non sono ancora note le motivazioni del pronunciamento della Corte costituzionale né oso sostituirmi – sarebbe assurdo – al professor Capotosti nel valutare i molteplici aspetti giuridici della questione, ma mi auguro che lungo il nuovo percorso vengano abbandonati  i parametri del decreto di Monti (almeno 2.500 chilometri quadrati di territorio e almeno 350.000 abitanti), parametri di cui torno a sottolineare la farraginosa astrattezza ragionieristica e la sostanziale iniquità socioeconomica. Per quanto riguarda casa nostra, infatti, basti  pensare che essi avrebbero imposto l’abolizione sia della Provincia di Macerata (in regola per il territorio ma con un deficit di 30 mila abitanti), sia di quella di Fermo (fortemente in deficit su entrambi i parametri), sia di quella di Ascoli (in deficit sui chilometri), sia di un’eventuale fusione fra Ascoli e Fermo (anch’essa in deficit sui chilometri). E allora? Unica soluzione: il ventilato Distretto Marche Sud con dentro Macerata, Fermo e Ascoli, un “mostro” di cinquemila chilometri quadrati e 670 mila abitanti, a capoluogo del quale i ragionieri montiani avevano in mente la “baricentrica” Fermo.

 Tornando all’autunno dello scorso anno, si ricorderanno le polemiche, le manovre, le proposte e i rispettivi calcoli elettorali che animarono i rapporti fra Macerata, Ascoli e Fermo, col vacillante possibilismo di una Regione nella quale per ragioni di peso politico prevalgono gli interessi di Ancona e Pesaro, e il resto, dal Musone al Tronto, si arrangi come può. Ciascuna di queste tre Province “meridionali” sbandierava il proprio diritto a salvarsi e quasi ogni giorno c’era qualcuno che escogitava operazioni aritmetiche su chilometri e abitanti apparentemente destinate a rispettare quei parametri  e ad accontentare tutti (ma non era vero, giacché ci voleva poco a capire verso quale mulino tirava l’acqua chi di volta in volta se ne faceva paladino, e non si dimentichi la misteriosa trasferta nell’allora Bar Pierino del senatore ascolano Amedeo Ciccanti che esibendo carte geografiche e dati demografici tentò di sedurre i maceratesi  con fantasmagoriche ipotesi di annessioni o concessioni  di terre e migrazioni o immigrazioni di persone, ma in realtà il suo scopo puntava a proteggere il proprio consenso elettorale).  E adesso? La questione non può che diventare nazionale e non può che cambiare da tecnica a politica: stabilire quanti e quali saranno gli indispensabili enti intermedi – non elettivi, ripeto – fra Regioni e Comuni, e con quante e quali competenze amministrative. Non mancheranno discussioni e magari polemiche, ma l’asticella si è alzata e dovrebbe prevalere l’interesse generale.

Da ultimo ammetto che anch’io, in quei mesi caldi, mi battei per Macerata. E forse esagerai, magari con un pizzico di campanilismo. Ma pensavo soprattutto alle sorti del centro storico della città, che aveva già perduto la sede della Banca d’Italia e quella della ex Cassa di Risparmio, e se, come sembrava, avesse finito col perdere pure le sedi della Prefettura, della Questura e dell’Amministrazione provinciale, avrebbe compiuto un fatale passo indietro anche in termini occupazionali, con tanti saluti a qualsiasi progetto di sostegno e rilancio della sua anima urbana. La questione, intendiamoci, resta aperta. Ma torna la speranza che alle alchimie ragionieristiche dei tecnici possa sostituirsi la politica, intesa come buona politica. Staremo a vedere.



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