Alle ore 17 di mercoledì prossimo, nell’aula magna dell’Università di Macerata – e il 2 marzo alla biblioteca comunale di Civitanova – la docente di storia moderna Paola Magnarelli presenta il libro “Stalag IV-B” che l’Associazione Carima, grazie all’impegno del presidente Carlo Capogaglio, ha dedicato al diario di prigionia del tenente civitanovese Franco Terenzi, internato per ventuno mesi, dal settembre del 1943 al maggio del 1945, nei campi nazisti di Zeithain, Muhlberg, Oberlagen e Sandbostel, e poi liberato dagli inglesi.
E’ una storia, questa, che comincia come tante altre ma, sul finire, ha dell’incredibile. E dove sta l’incredibile? Non certo in quei mesi di duro internamento, giacché sappiamo che l’8 settembre del ’43, dopo l’armistizio firmato dall’Italia, migliaia di militari italiani – Terenzi si trovava in Grecia – furono considerati “nemici” e trasferiti nei campi di concentramento tedeschi . Tanto meno sta nella successiva e serena vita di Terenzi, che, tornato a casa, si sposò con Maria Marinelli, ebbe due figlie, Luisella e Manuela, dopo essere stato assunto dalla Cassa di risparmio della provincia di Macerata presso la quale rimase fino al 1976, quando, a soli 55 anni, lo stroncò una malattia. E l’incredibile non sta nemmeno nei due grossi quaderni che durante la segregazione Terenzi aveva riempito a matita, giorno dopo giorno, per raccontare gli stenti, le sopraffazioni, la quotidiana paura di non uscirne vivo, quaderni che lui portò con sé al ritorno in patria (analoghe testimonianze furono infatti rese – anche per iscritto, e poi pubblicate – da altri che avevano subito quell’odissea).
E allora? L’incredibile è che di quel diario Terenzi non parlò mai con nessuno, né familiari né amici né colleghi di lavoro. L’aveva composto esclusivamente per se stesso, non lo distrusse perché sentiva che lì c’era un pezzo ancora vivo della propria esistenza, ma lo tenne segreto, lo nascose nell’angolo di una soffitta e la signora Maria lo trovò quasi per caso nel 2000, in occasione di un trasloco, ben cinquantacinque anni da quando fu scritto e ben ventiquattro anni dopo la morte di colui che l’aveva scritto.
Ora il dottor Capodaglio ha inserito questo diario in un volume di quasi trecento pagine che oltre alla riproduzione fotostatica dell’originale e alla sua trascrizione in caratteri di stampa contiene dettagliate informazioni su quei campi (diversi, intendiamoci, dai campi di sterminio tipo Auschwitz ma pur sempre incupiti da una disciplina oltremodo afflittiva, senza alcun rispetto della Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra), e un panorama generale su quella fase storica, e numerosissime immagini fotografiche.
Un diario, va subito detto, estremamente originale, cioè diverso dagli altri che sono usciti negli scorsi decenni, perché, scrivendolo, Terenzi non intese formulare giudizi sulle ragioni della guerra e sui valori in campo, giudizi che lui aveva ben chiari dentro di sé e non sentiva il bisogno di rammentarseli, ma semplicemente e drammaticamente volle annotare, per sé medesimo, quasi a dirsi “oggi ce l’ho fatta”, l’ossessione della mancanza di cibo, il freddo, le pulci, i pidocchi, i morti per tifo e tubercolosi, le sommarie sepolture, il rigore inflessibile ma non premeditatamente crudele delle guardie, l’umiliante necessità di farsi dare da loro o da altri reclusi qualcosa in più da mangiare in cambio di oggetti a lui cari, la catenina d’oro della mamma, l’orologio regalatogli dal padre. Tutto questo senza impeti di ribellione, quasi accettando, fatalisticamente, la sorte impostagli dalle vicende del conflitto mondiale.
Il profondo significato di questo diario, insomma, sta in un sentimento di umanità che accomuna sequestratori e sequestrati, carnefici e vittime, compagni fedeli e infedeli, ognuno in balìa di un destino che assegna e impone le varie parti di un’immensa tragedia. A un certo punto Terenzi descrive , quasi di sfuggita, in poche righe, il rifiuto, suo e di molti altri commilitoni, di aderire alla Repubblica sociale di Mussolini in cambio di un’immediata liberazione. Ma non se ne vanta. Si limita a definirlo un normale “amor proprio da ufficiale”. C’è del minimalismo, in questo diario? Ci sarebbe sembrato se l’avessimo letto negli anni Cinquanta o Sessanta del secolo scorso. Oggi no, la grande storia ha compiuto i suoi lunghi passi. Ma qualcosa di grande, adesso, la troviamo anche nella piccola storia di Terenzi: la resistenza, la tenacia, la speranza, l’attaccamento alla vita di un uomo che, pur fra tanti come lui, dovette affrontare da solo l’ineluttabilità degli eventi.
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Fantastico! Congratulazioni all’intelligenza consapevole all’Associazione Carima.
Chi era Franco Terenzi? Nessuno, come milioni di persone passate attraverso la tragedia della pazzia ideologica umana. Eppure, egli aveva un nome ed una famiglia. Come tutti gli altri milioni di dimenticati. E aveva un destino che lo aveva reso così forte psicologicamente e fisicamente da riportarlo in Patria e da permettergli poi di mettere al mondo due deliziose creature.
Commuove sapere che Franco non ha scritto per lasciare un suo ricordo o per piangersi addosso… Ha solo messo il suo cuore in un quaderno, quasi una meditazione personale sulla vita…
Io credo che il libro ci permetterà di guardarci dentro. Sarà forse un’aiuto per chi versa in gravi condizioni psicofisiche (e a causa della crisi e di un futuro verso cui si è persa la speranza). Ossia, che si può sopravvivere in momenti ed ambienti dove il senso dell’umanità era diventato spazzatura.
Ottima iniziativa.
Consiglierei di contattare l’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano: accoglierebbero molto volentieri lo scritto (credo anche in fotocopia)