di Roberto Scorcella
Il campanello d’allarme lanciato lo scorso febbraio dai sindacati sulla delocalizzazione di parte della produzione di Poltrona Frau Group sta diventando realtà. Anche se oggi lo stabilimento tolentinate di Poltrona Frau viene toccato solo sensibilmente dalle scelte manageriali di portare in Romania la parte di lavorazione che riguarda la cucitura, questa mattina le organizzazioni sindacali e le Rsu, a seguito di unì’assemblea tenuta con i lavoratori di Poltrona Frau, hanno voluto ribadire la loro preoccupazione e la volontà di mantenere alta l’attenzione sul sito produttivo di Tolentino. Oggi la delocalizzazione della cucitura riguarda prevalentemente il marchio Cassina. Secondo quanto si è appreso delle centomila ore di lavorazione di cucitura oggi interne allo stabilimento lombardo di Cassina, l’azienda sarebbe intenzionata a delocalizzare in Romania, o comunque in aree del mondo dove il costo del lavoro risulta notevolmente più basso rispetto a quello italiano, almeno settantamila ora di cucitura per una riduzione dei costi che sarebbe pari a circa il 50%. “Si tratta di un costo globale – ha sottolineato il segretario provinciale della Fillea Cgil Daniel Taddei – che non arriva a un terzo del premio che ha recentemente ricevuto l’amministratore delegato Dario Rinero pari a oltre un milione e mezzo di euro. Si tratta di una situazione paradossale e di una contraddizione palese che non possono non allarmarci. Il fatto che oggi questa situazione relativamente non tocchi il sito di Tolentino non ci fa stare tranquilli. Crediamo che questa dirigenza abbia esclusivamente lavorato per far quadrare i bilanci e far prendere i premi ai vari amministratori. Di certo non si è lavorato per far crescere l’azienda e soprattutto il prodotto”. Dello stesso tenore l’intervento del segretario provinciale della Filca Cisl il quale ha voluto sottolineare come “Questa azienda offre un lavoro artigianale nel quale il valore aggiunto delle maestranze e la loro professionalità garantisce il vero made in Italy. L’azienda sta cercando di creare massima redditività a discapito del prodotto e dei lavoratori”. Cuatsico Aldo Benfatto, segretario generale della Cgil: “Poltrona Frau dovrebbe rappresentare il made in Italy. A capo del gruppo c’è la famiglia Montezemolo di cui Luca Bordero viene riconosciuto come ambasciatore del made in Italy all’estero. Come mai queste stesse persone decidono di portare pezzi di produzione all’estero?”. Le Rsu, infine, hanno voluto rimarcare come attualmente la cucitura per Poltrona Frau venga svolta soprattutto da terzisti di Tolentino. Una eventuale delocalizzazione creerebbe problemi drammatici per tutto l’indotto”.
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che squallore……………..
Se Luca Abbacchio di Montezemolo si fosse LEGAto al territorio avrebbe risparmiato ancora di più: Tulindì è piena di laboratori cinesi, e indiani che bisogno c’è di delocalizzare all’èstero?
il modello che seguono questi manager è sempre lo stesso… delocalizzano per ridurre i costi, chiedono interventi straordinari come la cassa integrazione o mobilità per gli operai con un costo sociale a carico della collettività e quando questi ammortizzatori sociali terimnano il loro effetto, annunciano lo stato di difficoltà con conseguente rinnovo di richieste di aiuto che se non vengono concesse sfociano nel licenziamento degli operai. La fiat lo ha fatto per decenni e tra cassa integrazione e contributi per la rottamazione non so quanti aiuti hanno ricevuto finquando non è stato deciso il grande passo verso l’america…. il paradosso nel caso della Cassina è ancor più clamoroso: i manager gonfiano il loro conto corrente e gli operai perdono il loro posto di lavoro! sarà mica che il modello basato sulla logica del profitto (senza un minimo di coscienza da parte di chi ne è parte attiva) non è poi tanto funzionale?????
Gran parte delle industrie tessili e manufatturiere è composta da una sistema produttivo a bassa o bassissima tecnologia.
Cioè significa che sostanzialmente si produce un vestito, una borsa, una scarpa come la si produceva 100 anni fa.
(certo 100 anni fa per manovrare manualmente una pressa era necessario girare la rondella, spingere il cilindro, ruotare la manovella mentre ora, con l’avvento della “tecnologia”, tutto questo è semplificato: piede sul pedale e schiacciare il bottone…)
La linea produttiva è rimasta quindi sostanzialmente la stessa poichè l’operaio è il fulcro della produzione in quanto il macchinario è secondario: se non sai cucire bene, se non sai tagliare bene, se non sai incollare bene, se non cardi bene la suola prima della pressa, ecc. ecc. il risultato è un lavoro schifoso.
Quindi queste nostre fabbriche a bassa o bassissima tecnologia si fondavano ancora sulla buona qualità della manodopera: un bravo sarto valeva molto di più dell’ultima macchina ipertecnologica per cucire….
Non a caso negli anni ’70 ’80 e ’90 del secolo scorso noi italiani (in molti campi produttivi) eravamo i “cinesi d’Europa” poichè il nostro prodotto costava di meno e la qualità era ottima e pertanto abbiamo spopolato in molti mercati.
Purtroppo però, avendo una filiera produttiva a bassa tecnologia, significa che “chi copia” prima o poi raggiunge il nostro stesso livello.
20 anni fa le calzature ed i vestiti cinesi, paragonati ai nostri, facevano schifo: la qualità era scadente, le cuciture erano storte, il prodotto era complessivamente nemmeno di serie B, ma proprio da semiprofessionisti.
Ma questi semiprofessionisti hanno continuato a tagliare, cucire, incollare, creare fino a che il loro prodotto non è risultato identico al nostro (in fatto di qualità), con il vantaggio che siccome laggiù lavorano per uno stuipendio da fame il costo è assai più basso.
Già negli anni ’60 prprio qui nelle Marche avevamo assistiti al lento declino della EKO che produceva ottime chitarre, copiate poi dai giapponesi (e vendute a prezzi inferiori).
Adesso la stessa storia si ripete con i calzaturifici, i maglifici, i poltronifici: in Cina, in Vietnam, in India la manodopera costa uno sputo ma la qualità è la stessa…. Quindi perchè acquistare qui a 100 se posso comprare in Cina a 50???
Certo in molti paesi Orientali la qualità della vita in fabbrica è paragonabile alla nostra inizio scorso secolo: nessuna tutela, le ferie un miraggio, nessuna tutela sindacale, macchinari spesso fuorilegge, inquinamenti in fase di produzione… Ma la nostro manager gli importa una sega: laggiù un vestito griffato costa 50 euro, qui 100 quindi la produzione griffata di Tizio (tutti i grossi nomi del Made in Italy hanno delocalizzato) va a finire a Taiwan o in Cina e tanti saluti agli operai italiani che perdono il posto di lavoro poichè il trasferimento in Asia della propduzione significa maggiori utili.
Se volete divertirvi fate un giro nelle nostre marchigiane fabbriche griffate e chiedete quanta della loro produzione è fuori (o rientra come semilavorato e qui mettono solo l’etichetta con la scritta Made in Italy) oppure come mai una loro fabbrica è oramai diventata solo un magazzino, con un ufficio commerciale, visto che non si produce più nulla….
@ Cerasi
Quando si lavorano i tessuti, per l’abbigliamento o per altro, è la cucitura la fase di difficile automazione. In tutte le fasi precedenti e successive l’automazione si è sviluppata enormemente. E’ per questo che le aziende delocalizzano la fase della cucitura.
Riporto da un testo specifico:
“Le tecnologie dell’abbigliamento
La tecnica di base della produzione dell’abbigliamento è rimasta essenzialmente immutata nel tempo; essa si basa tuttora sull’uso dell’ago e del filo; lo strumento di cucitura è ancora la macchina da cucire, inventata nella metà dell’800 e da allora perfezionata in termini di velocità operativa e di varietà di punti realizzabili.
L’operazione di cucitura costituisce pertanto il punto focale degli sviluppi tecnici, ma finora ha resistito ai vari tentativi di apportare un elevato grado di automazione. Le altre operazioni nella fabbricazione dell’abbigliamento, specialmente le operazioni precedenti la cucitura, si sono dimostrate più accessibili per le nuove tecnologie.
Per consentire di comprendere i problemi relativi all’automazione del processo di confezione, è opportuno illustrare brevemente le varie operazioni coinvolte, dalla fase di creazione al prodotto finito. Le principali fasi di fabbricazione sono:
la creazione,
le operazioni antecedenti la confezione,
la confezione,
la finitura.
La creazione comprende il disegno e la modellistica del capo. Per definizione, questa è la fase maggiormente creativa; determina la natura del prodotto ed il modo in cui esso verrà lavorato. Il disegno tiene conto delle tendenze di moda, delle variazioni nel gusto e nel comportamento del consumatore nonché dell’immagine di marchio del produttore.
La modellistica determina il metodo di costruzione del capo.
La seconda fase riguarda tutte le operazioni precedenti la confezione, prime di tutte lo sviluppo taglie ed il piazzamento.
Lo sviluppo taglie consiste nel riprodurre il prototipo in ognuna delle taglie in cui esso deve esser realizzato; scopo del piazzamento è quello di determinare come debba esser tagliato il tessuto onde ottenere le varie parti del capo. Il taglio è perciò la fase di produzione di questi componenti dal tessuto, di norma dopo faldatura.
La procedura da seguire per le restanti due operazioni è diversa: confezionamento, che consiste nel congiungere tra loro le diverse parti del capo mediante cucitura, e finitura, dove il prodotto viene sottoposto ad operazioni che lo rendono idoneo alla vendita in termini di presentazione, cioè stiratura, piegatura ed imballaggio.
Un apparente paradosso è che sono le operazioni richiedenti doti di maggiore abilità e capacità (vale a dire il disegno, la modellistica ed il taglio) ad esser state finora le aree più interessate dall’innovazione tecnologica, mentre non sono state affrontate con risultati significativi le operazioni che comportano una maggiore manualità e ripetitività.
Il motivo di fondo è costituito dal fatto che il materiale impiegato, il tessuto, sia esso ortogonale che a maglia, è flessibile ed il confezionamento richiede un vasto numero di operazioni di assai difficile automazione.”
Qualcuno citava Montezemolo. Quello che quando era in Confindustria diceva che bisognava valorizzare i prodotti italiani?
Mentre noi qui stiamo a raccontarci cazzate sulla filiera e la tessitura il manager solo di Premio ha già guadagnato lo stipendio annuale di un operaio. Continuate a sostenere questo modello economico chiamandolo liberale, continuate a difendere questo sistema politico chiamandolo democratico.
Tra l’altro sono sicuro che molti di quelli che adesso si scandalizzano 6 mesi fa quando il problema era Fiat e Mirafiori se ne fregavano o peggio erano dalla parte di Marchionne, vile boia infame.
Gli operai devono bruciare le fabbriche, solo generando perdite per i dirigenti i lavoratori saranno ascoltati. Mi raccomando, bruciare prima della delocalizzazione.
vergognatevi miseri manager del menga!
cosi’ l’imprenditore lo so fare pure io e mio nonno in carrozza!
5 milioni di stranieri in italia e 4 milioni e 100mila giovani italiani che devono emigrare all’estero.ma che mondo alla rovescia e’?
non vi e’ bastato abbassare il costo del lavoro gia’ qui in italia con manod’opera in nero o sottopagata da diversi anni a questa parte?mi starebbe pure bene lo spostamento di fabbriche in altri posti nel mondo,ma noi?che possibilita’ per chi perde il lavoro?cosa si mettera’ a fare un padre di famiglia?
giusta l’incazzatura del signor Ribechi,vorrei pero’ aggingere che la colpa ricade anche nell’operaio stesso che spesso e volentieri vede nel suo capo un semidio(mie bruttissime esperienze di fabbriche).
siamo uno dei pochi posti in italia dove il datore di lavoro viene ancora chiamato PADRO’!
quindi,spiace dirlo ,a volte la colpa e’ degli operai stessi che devono uscire dal loro mondo “ovattato” se cosi si puo’ dire.incacchiatevi sul serio non per 2 minuti di pausa sigaretta!!!!
Sono d’accordo perché spesso l’operaio, oltre ad essere l’aguzzino dei suoi simili, è emulo dei comportamenti e dei valori del manager e così si dimentica la lotta di classe che, per quanto usare termini marxisti oggi possa sembrare anacronistico e fuori moda, è l’unico mezzo che ha portato ad una reale evoluzione dei diritti sindacali. Oggi invece i sindacati sostengono il paradigma della crescita economica e sembrano essere sempre gli ultimi a sapere le cose… ma forse i pezzi grossi dei sindacalisti sono proprio il braccio destro degli imprenditori che con un sol colpo si bevono stato, sindacato, diritto e produzione e poi brindano alla nostra con festini di cui sappiamo gli sviluppi.
questa classe dirigente va spazzata via, che i lavoratori diventino azionisti delle aziende per cui lavorano, basta sotterfugi e ammanicamenti.
La cosa peggiore è che spesso quello che fanno è tutto legale o “legalizzato”…