Yamo Ansari il giorno della laurea assieme ai suoi genitori naturali e alla famiglia adottiva
di Laura Boccanera
A soli sette anni ha percorso la strada che separa il suo villaggio, un sobborgo di 500 anime fra pecore e montagne dell’Afghanistan, e Tolentino. In mezzo un viaggio della speranza in gommone dalla Turchia alla Grecia in mare aperto e poi quel camion che da Patrasso l’ha portato ad Ancona. Yamo oggi ha 26 anni, è stato un bambino scappato dall’Afghanistan dei talebani nel 2005 e oggi è un infermiere (lavora a Firenze), sta per prendere una seconda laurea in Scienze politiche e a fine febbraio salperà a bordo di una unità di soccorso in mare della guardia costiera per offrire la sua esperienza umana fra i profughi di Lampedusa e a Roccella Jonica. Yamo Ansari oggi è un ragazzo di 26 anni con accento marchigiano, «cresciuto a ciauscolo e Varnelli» scherza, ma quando era appena un bambino si è visto rubare l’infanzia e l’ingenuità.
E dopo tanto tempo ora è pronto a raccontare la sua storia, che è incredibile e commovente, perché, come dice lui: «ho capito che tutto quel dolore, tutta la mia storia dovesse servire a qualcosa, essere mandata nel mondo per aiutare gli altri».
Yamo durante una missione in Burkina Faso
E in effetti Yamo è appena un bambino quando a 7 anni dal suo villaggio di Ta Kamar, al confine nord con l’Afghanistan vive con la mamma e la sorella in un paese di poche centinaia di persone che si sostengono di pastorizia. Il papà è partito alcuni anni prima, destinazione Inghilterra e manda loro soldi per il sostentamento. Yamo però ormai ha 7 anni e il suo futuro non può essere in Afghanistan: «ho ricordi dolci della mia terra d’origine, eravamo poche persone, vivevamo come selvaggi, senza scarpe, di niente. Ma ho ancora negli occhi immagini incancellabili e drammatiche. Un mio amico che giocava e che è saltato in aria a causa di una mina anti uomo. Ricordo di essere scappato a casa da mia mamma. O ancora i talebani che passavano con le moto e che spaventavano la popolazione».
E così il padre dal Regno Unito pianifica il viaggio per Yamo. Paga una persona perché lo accompagni.
L’addio alla madre è straziante e ancora oggi ci ripensa: «non sapevo se l’avrei mai rivista, da adulto ripensandoci sento che mi è stata tolta l’infanzia. Essere strappati alla propria madre è l’esperienza più dolorosa per un figlio e credo sia la stessa cosa per mia madre». Passa dall’Afghanistan all’Iran, si viaggia di notte, a piedi, spesso sulle montagne dove al buio riecheggiano i rimbombi degli spari. Altra gente sta scappando, è un via vai continuo, qualcuno rimane lungo la strada. «Avevo con me un po’ di denaro che mi aveva lasciato mia madre, ma mentre passavamo in un bazar, la vista dei tanti mutilati che si trovavano ai margini della strada mi impietosì. Non conoscevo il valore del denaro, ma lasciai a loro i soldi che mio padre aveva mandato per noi e per il viaggio».
Yamo arriva al confine con la Turchia dove insieme ad altri riesce ad imbarcarsi con un gommone verso la Grecia: «ho visto il mare per la prima volta – racconta – ero terrorizzato dalle navi che vedevo da lontano, eravamo in 9 su un gommone, i grandi remavano, io pregavo con quelle poche preghiere che mi aveva insegnato mia madre». Riesce ad arrivare in Grecia, qui sta prima ad Atene e poi a Patrasso cerca un “passaggio” sui camion che arrivano in Italia via nave. La destinazione è il Regno Unito. Molti salgono e rimangono aggrappati ai camion mentre viaggiano su strada, Yamo non sa come arriverà in Italia, si fida di chi è con lui, ci sono ragazzi anche poco più grandi, minorenni, alcuni di poco maggiorenni, ma già uomini per gli standard dell’Afghanistan. Alla fine assieme ad un altro ragazzo riescono a nascondersi in un camion che trasporta mensole e, piccolo com’è, anche a sfuggire ai controlli che pure vengono effettuati sul bilico. Quando le porte si aprono è in Italia. Ma ad aprire è la polizia: «avevamo ideato un piano: avevamo preso un sasso, immaginando che una volta sulla terra bussando il camionista avrebbe aperto e noi colpendolo con il sasso saremmo riusciti a scappare e a raggiungere la Francia». Non andò così: il camionista che li sentì bussare chiamò direttamente la polizia e Yamo arrivò in una comunità a Pioraco.
E’ qui che inizia la sua seconda vita, perché dopo un periodo di circa un anno e mezzo una famiglia di Tolentino, Paola Giacobelli e Onelio Cingolani, lo prendono in affido: «Ero un bambino difficile, ma oggi li chiamo mamma e babbo perché se sono quello che sono lo devo a loro. Hanno avuto tanta pazienza con me». Yamo cresce nel maceratese, diventa un adolescente e come tutti i ragazzi della sua età è pieno di domande, a volte rabbia, si chiede chi sia davvero e dove siano le sue radici. Si sente sbagliato e abbandonato dalla famiglia d’origine a cui non perdona di averlo fatto partire, solo. La famiglia d’origine in realtà non lo ha mai abbandonato. Il padre dal Regno Unito cerca di raggiungerlo anche se non è semplice. Prima deve ripassare dall’Afghanistan e quando finalmente riesce a rivederlo è il 2015, sono passati 10 anni. «Ero anche arrabbiato, subito non ho preso bene il suo arrivo, avevo il cuore a pezzi. Avevo lasciato mia madre, mia sorella nel frattempo era stata costretta a sposarsi come succedeva a tutte le bambine». Yamo e suo padre si rivedono, è lui a raggiungerlo in Italia, passano del tempo insieme e poi cerca fortuna in Francia dove dopo alcuni anni potrà fare il ricongiungimento familiare e portare la moglie e altri due bambini che erano nati nel frattempo. E’ il 2021 quando i “quattro genitori” di Yamo si incontrano e si conoscono: l’occasione è la sua laurea. Quel bambino partito a piedi da Ta Kamar si è laureato a Perugia, è un infermiere e ha deciso di restituire agli altri la fortuna che ha avuto nella vita. Ma non basta, la sua storia è qualcosa di eccezionale e Yamo lo sa, può capire la paura, il dolore, il terrore di non farcela dei migranti ed è là che andrà. A fine febbraio partirà alla volta di Lampedusa e poi a Roccella Jonica per aiutare tutti coloro che sono sbarcati e che sbarcheranno: «quando ho iniziato il mio viaggio non sapevo bene cosa stessi facendo, dove andavo, poi crescendo ho capito che vita avevo fatto. Quando sento le notizie sui migranti o quei commenti di chi dice che magari devono morire tutti in mare non posso non ricordare che su quel gommone ci sono stato anche io. Ed è per questo che dopo averla taciuta per anni oggi voglio raccontare la mia storia, affinché sia di ispirazione per chi arriva, ma anche per chi è italiano e un domani potrebbe dover migrare. Ho pensato che tutto il dolore provato dovesse servire a qualcosa. Ho sempre voluto fare qualcosa di più. La mia stessa vita è un miracolo, potevo morire tantissime volte e sono qui. Ora voglio provare ad alleviare la sofferenza degli altri».
Complimenti bravo e grazie alla famiglia che ti ha aiutato
Buon vento
Congratulazioni
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… esiste una accoglienza diffusa e silenziosa… di gente per bene che trovandosi ad avere contatti con migranti in fuga da situazioni inenarrabili… accoglie…. integra… a volte educa….. crea opportunità di integrazione per questi sfortunati la cui unica colpa è spesso solo quella di essere nati ad una latitudine diversa dalla nostra….. lo Stato quando interviene …. si dimostra inefficiente… da vita a strutture e modalità di assistenza dispendiose in cui spesso operano avvoltoi di vario genere… tanta gente in Italia… anche in relazione all’invecchiamento della popolazione… potrebbe prendersi cura di qualche disperato… ho la sensazione che una accoglienza diffusa e capillare sarebbe molto meno onerosa ed estremamente più valida delle varie soluzioni che negli anni i vari governi hanno porto in essere… comunque… in bocca al lupo Yamo