«La vecchia sanità è in crisi,
curare il malato e non la malattia.
Ai giovani dico: passione e volontà»

INTERVISTA a Massimo Massetti, direttore della Cardiochirurgia del Gemelli, a cui è stata conferita la cittadinanza onoraria di Monte San Giusto, dove da ragazzo ha vissuto con la famiglia. «L’obiettivo che mi pongo in questi ultimi dieci anni della mia vita professionale è molto ambizioso, è quello di riuscire a iniziare questo cambio di paradigma nel mondo sanitario»

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Il conferimento della cittadinanza onoraria a Monte San Giusto

di Luca Patrassi

Il professor Massimo Massetti è il titolare della cattedra di Cardiochirurgia alla Università Cattolica di Roma e direttore della Cardiochirurgia del Gemelli di Roma. Gli è appena stata conferita la cittadinanza onoraria di Monte San Giusto, cittadina che l’ha visto residente per alcuni anni con la sua famiglia, il padre è stato comandante della stazione dei carabinieri.

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Massimo Massetti con il sindaco di Monte San Giusto Andrea Gentili

Professor Massetti, le radici non si perdono. Che ricordi ha?
«Ho passato più di quattro anni a Monte San Giusto, dalla seconda media al secondo liceo, ho vissuto gli anni dell’adolescenza in un periodo particolare per Monte San Giusto in cui esplodeva l’attività calzaturiera: tutti, dai nonni ai ragazzi, contribuivano a questa dinamica economica. Si viveva il valore del lavoro e ci si conosceva tutti, l’amicizia era un valore. L’esperienza della comunità di Monte San Giusto è stata veramente utile e direi formativa, ho conosciuto persone con cui ho continuato a interagire negli anni, quei valori su cui è stata costruita questa amicizia erano veramente molto importanti, dopo quaranta anni rivedere e rivivere certi rapporti è come se non ci fosse mai stata interruzione».

Percorso formativo a Siena, primi incarichi di prestigio all’estero per poi tornare in Italia,  attualmente è il direttore della Cardiochirurgia dei Gemelli di Roma, grazie alla legge Gelmini per il “rientro dei cervelli”. E’ cambiato qualcosa in questi anni o l’estero continua ad essere una tappa obbligata per affermarsi, in particolare per i giovani?
«Nel ’92 scelsi di andare in Francia, a quell’epoca rappresentava il Paese più evoluto sul piano delle tecniche e delle terapie cardiochirurgiche. In quegli anni questi esodi per imparare mestieri molto specialistici erano di grande attualità. Ho fatto un percorso formativo importante, ho acquisito competenze che mi hanno permesso di tornare, richiamato con una legge speciale, quella che lei cita, dalla Cattolica a Roma trovando un Paese che, da un punto di vista medico e della mia specialità, aveva fatto molti progressi. Ora sono qui da dieci anni e devo dire che il livello e la performance delle specialistiche in ambito cardiovascolare oggi sono equivalenti a quelle che si ritrovano nei paesi anglosassoni del Nord Europa e nella stessa Francia. Le tecnologie sono disponibili in tutti i Paesi anche se i volumi di attività sono diversi, grazie alla globalizzazione, alla dinamica della ricerca e della didattica che è basata sulla condivisione di conoscenze internazionali, il livello di offerta di cura che oggi è presente in Italia non ha niente da invidiare a quello di altri Paesi. Oggi non è più di attualità, come era negli anni ’90, la necessità di espatriare per formarsi all’eccellenza in alcune specialistiche».

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Massimo Masetti

Ha sempre pensato di fare il medico? La carenza di dottori e di specialisti si risolve abolendo il numero chiuso a Medicina, ci devono essere altri criteri selettivi o il merito resta un criterio non trattabile?
«La specialistica in Italia ha sempre sofferto di una cattiva programmazione a livello centrale. Negli anni ’90 e Duemila l’accesso alla specialistica è sempre stata larga nonostante ci fosse il numero chiuso, non c’è mai stata una programmazione in base alle esigenze e così siamo arrivati a un momento in cui non c’era più un ricambio generazionale. Adesso si sta cercando una soluzione e penso che negli anni prossimi ci sarà una migliore coerenza tra medici formati e necessità di coprire territori o strutture con queste competenze specifiche»

Un paziente è più un volto o più una patologia da affrontare? Ha ancora un senso il passaggio in corsia del camice bianco o tutto si risolve in camera operatoria?
«La mia grande ambizione di questi anni, essere medico non solo come specialista che va in camera operatoria ma prendere in carico il paziente a 360 gradi, il malato è una persona che ha un vissuto della sua patologia e necessità di essere capito, compreso: bisogna integrare tutte queste informazioni che provengono dal paziente come malato a quelle più biologiche. La cura non è soltanto aggiustare la parte malata di un organo ma farsi carico delle problematiche generali di un paziente che vive un percorso di sofferenza. Curare il malato, non soltanto la malattia: così interpreto il mio mestiere».

massetti2-325x216Ripete spesso, e lo ha fatto anche a Monte San Giusto, che la medicina deve passare dalla cura della malattia alla presa in carico del paziente nei suoi vari aspetti, anche psicologici. Come?
«Non è facile, l’organizzazione sanitaria non prevede facilmente questa interpretazione dell’essere medico che prende in carico il paziente e non solo la malattia. Negli ospedali oggi è tutto organizzato in modo tale che vengano realizzate le prestazioni, quindi abbiamo le unità specialistiche, gli ospedali e spesso il paziente per curarsi viaggia da uno specialista all’altro, da un ospedale all’altro: questa medicina a pezzi, questa frammentazione della cura è all’origine del disagio che i pazienti vivono perchè poi la cura erogata molto spesso non corrisponde alla cura percepita dal paziente. L’ambizione è cambiare il paradigma di cura, non curare soltanto con prestazioni ma prendersi carico del problema di salute, le strutture non prevedono che il malato venga visto nella sua completezza. Quello che stiamo facendo al Policlinico Gemelli è mettere in atto una serie di cambiamenti che passano per percorsi clinico-assistenziali. Non è più il paziente che si deve spostare, ma sono le risorse che si organizzano per dare al paziente la risposta più adeguata».

Lei è direttore della Cardiochirurgia del Gemelli, ma anche presidente di una onlus, “Dona la vita con il cuore”: sono, o dovrebbero essere, funzioni complementari o distinte e distanti? Il volontariato è una eccellenza italiana, “sfruttata” dal sistema pubblico per coprire carenze nei servizi?
«Il terzo settore è un pilastro del nostro Paese. La volontà dei singoli di contribuire al benessere dei cittadini: in termini di sanità questo volontariato si concretizza con iniziative come quelle che portiamo avanti con la nostra associazione che si chiama  “Dona la vita con il cuore”. Abbiamo creato  “Le domeniche del cuore”, un gruppo di volontari che sono medici, infermieri, volontari e vanno nelle periferie disagiate a realizzare visite gratuite a persone che sono in disagio sociale e l’ultima cosa che fanno è quella di curarsi. Questa attività secondo noi dovrebbe essere parte integrante di ogni cittadino del nostro Paese  che dovrebbe vivere questa attività di volontariato come un dovere».

Quando si parla di sanità, si abbinano spesso voci legate alla costruzione di nuovi ospedali, nuove tecnologie, assunzioni. E’ una visione superata? Il risvolto umano della cura è un approdo che qualcun altro, oltre a lei, si pone?
«Non posso rispondere positivamente, la visione della medicina del futuro purtroppo è ancora confinata in alcuni ambienti e propria di alcune persone: siamo in pochi a considerare che per cambiare questa situazione di grande crisi anche di accesso alle cure bisogna cambiare il paradigma della cura stessa, solo così riusciamo a ricreare quella sostenibilità economica mantenendo un’alta qualità delle cure, comporta rimettere in discussione l’organizzazione del sistema sanitario nazionale che, come strumento, è stato il fiore all’occhiello per tanti anni ma che oggi non è più in grado di garantire le cure gratuite universali proprio perchè si è perso quell’elemento fondamentale che è la sostenibilità economica, non ci sono più soldi».

massetti1-325x193A un giovane che pensa di fare il medico, cosa consiglia di fare?
«Il mio consiglio è quello di seguire la sua passione, la sua intuizione, la sua volontà. Questo è un mestiere che lo si può fare come un pianista che può realizzare un pezzo musicale o interpretare e quindi scrivere e modificare sulla base di una ispirazione. Il medico, anche perchè guidato dalla ricerca scientifica, può interpretare il suo futuro mestiere secondo quello che si sente. Se ha una grande motivazione, principi basati sulla sensibilità nei confronti della persona che soffre, se è spinto dalla volontà di guarire, di curare, di alleviare, ecco, questo è il mestiere più bello del mondo. Se uno si avvicina invece a questo mestiere per fare carriera, per aspirazione di status sociale o di guadagno economico, ecco questo , secondo me, è sbagliato».

A quanti non sono medici cosa consiglia per vivere bene, almeno dal punto di vista degli stili di vita?
«La miglior cura è la prevenzione, il modo migliore di curare il cuore è quello di prendersene cura quando non è malato. Quindi la mia risposta è che il cuore, parlo per la mia specialità ma anche per gli altri problemi di salute, è una macchina meravigliosa, una pompa idraulica che funziona grazie a un raffinato sistema elettrico che lo guida. Come pompa e come sistema elettrico con gli anni e con il lavoro continuo, va incontro ad usura che porta allo sviluppo di malattie. Il modo migliore per non ammalarsi è avere un corretto stile di vita, evitare fattori di rischio e condurre una vita equilibrata».

La cosa che più l’ha resa orgogliosa in questi anni?
«Aver realizzato negli ultimi anni una scuola chirurgica: quando sono rientrato al Gemelli , come direttore, ho preso gli studenti in Medicina che ho laureato e formato poi nei cinque anni di specializzazione e che in gran parte ho poi assunto. In questi dieci anni ho creato un gruppo che nelle competenze e nel modo di curare rappresentano veramente la mia scuola, di questo vado veramente orgoglioso».

Un obiettivo che si pone?
«L’obiettivo che mi pongo in questi ultimi dieci anni della mia vita professionale è molto ambizioso, è quello di riuscire a iniziare questo cambio di paradigma in una sanità che è in profonda crisi e ha bisogno di risposte. Nel mio piccolo, e con il mio piccolo contributo, vorrei iniziare a cambiare questo paradigma di cura che è centrato sulle prestazioni e trasformarlo in un paradigma che curi il malato e non soltanto la malattia. Questo è il mio più grande progetto, la mia più grande ambizione: spero di riuscire a raggiungerlo».



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