Primo trapianto al mondo con cuore fermo,
il cardiochirurgo Gerosa a Civitanova:
«Lo scompenso cardiaco uccide più dei tumori»

INTERVISTA con il medico di fama mondiale, in città per un convegno organizzato dal centro medico Progetto Salute: «Ora si punta al cuore artificiale italiano che sia anche per le donne»

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Gino Gerosa durante il convegno a Civitanova

di Francesca Marsili

Ne è sempre stato convinto Gino Gerosa, cardiochirurgo roveretano di fama mondiale: «La cardiochirurgia è una chirurgia carica di speranza e di opportunità».

gino-gerosa-2-292x400E l’11 maggio scorso è stato consegnato alla storia della medicina mondiale per aver “resuscitato” e trapiantato un cuore senza attività elettrica da 44 minuti, il primo trapianto di cuore prelevato da un donatore a cuore fermo in Italia.

Il luminare e pioniere della cardiochirurgia, direttore della Cardiochirurgia dell’azienda ospedale-università di Padova, lo ha ribadito ieri a Civitanova: «Nella cardiochirurgia c’è sempre una possibile soluzione che permette al cuore di essere aggiustato o sostituto, e quindi di salvare la vita al paziente». Rilanciando: «Ora si punta al cuore artificiale italiano che sia anche per le donne».

L’occasione è stata il convegno sullo scompenso cardiaco avanzato organizzato dal centro medico Progetto Salute, dove Gerosa effettuerà visite specialistiche, in cui hanno relazionato anche le dottoresse Lorenza Rotoloni, medico di medicina generale di Civitanova e Simona Masiero, cardiologa dirigente medico Ast 3.

Cresciuto alla scuola di Donald Ross, il sudafricano di origine scozzesi che si disputava con il compagno di studi Christian Barnard il titolo di miglior cardiochirurgo al mondo, Gerosa, al congresso, ha relazionato sulle nuove frontiere varcate dalla medicina, in particolare modo sulle ultime novità riguardo le terapie mediche e le opzioni cardiochirurghe. Evidenziando come: «Lo scompenso cardiaco continua ad essere la prima causa di morte. Negli uomini è letale più del tumore alla prostata, nelle donne più del carcinoma mammario». Un meccanico delle pulsazioni alla continua ricerca di sfondare quello che tutti gli altri credono sia irraggiungibile Gerosa, a margine del congresso, concede a Cronache Maceratesi un’intervista in esclusiva.

Professore, dove sta l’importanza di un trapianto come quello realizzato l’11 maggio che sembrava impossibile?

«Nelle tempistiche. Il trapianto da donatore a cuore fermo è un progetto al quale lavoravo da alcuni anni. Nel mondo il trapianto di cuore da donatore in arresto cardiocircolatorio è realtà già da un po’. In questi donatori l’accertamento di morte con carattere di arresto cardiocircolatorio impone la registrazione di un elettrocardiogramma piatto per 5 minuti, in Italia la legge impone di attendere 20 minuti. Con tempi così lunghi si pensava non si potesse fare, ma ci abbiamo creduto e lo abbiamo dimostrato sovvertendo un paradigma della medicina mondiale: i colleghi nordamericani avevano stabilito che per il trapianto da donatore a cuore fermo 30 minuti fosse un limite di tempo invalicabile. Ero molto sereno, sapevo che poteva funzionare, siamo arrivati a 44 minuti utilizzando delle tecniche particolari che hanno aiutato il cuore a ripartire»

gino-gerosa-3-325x243Come è stato possibile?

«Ci eravamo preparati. Da diversi mesi lavoravamo sia in ambito sperimentale sia clinico mettendo a punto una tecnica per poter gestire il donatore prima dell’arresto cardiaco e poi la riperfusione di questo cuore. Tecnica che si è rivelata di fatto efficace. Dopo aver perfuso il cuore sempre all’interno del donatore cadavere ne abbiamo valutato la funzione di pompa. Era estremamente soddisfacente, quindi abbiamo prelevato l’organo dall’ospedale dall’ospedale di Treviso, trasportato da noi a Padova e trapiantato. Chiaramente prima si fa una valutazione di questo cuore per decidere se idoneo o meno».

Dimenticheremo l’immagine dei medici che corrono a prendere l’organo da trapiantare?

«E’ ancora così, è avvenuto anche in questo caso. La differenza sta nel donatore. Nel donatore in morte cerebrale il cuore batte ancora ed è il chirurgo a fermarlo per poterlo trapiantare. Per evitare che l’organo si deteriori fino all’intervento si conserva a una temperatura di 4 gradi. In questo caso siamo ricorsi a un donatore che era già in morte cardiocircolatoria, quindi non lo abbiamo fermato ma, al contrario, abbiamo attuato tutte le tecniche necessarie per poterlo trapiantare utilizzando poi protocolli già consolidati».

Un’operazione senza precedenti, immagino una soddisfazione enorme.

«Grande, ma soprattutto un sentimento di forte riconoscenza perché è stato chiaramente un lavoro di squadra nella mia equipe del “Gallucci” e all’interno di regione Veneto».

Quindi si apre una nuova strada?

«Sì. Ogni anno in Italia sono circa 700 i pazienti in lista di attesa per il trapianto di cuore, ne vengono eseguiti circa 250, quindi diamo una risposta a meno di un terzo dei pazienti. Oggi, con il trapianto da donatore a cuore fermo possiamo pensare di incrementarli di circa un 30 %, sebbene anche cosi siamo sotto al 60% di risposta che possiamo dare a quei pazienti».

Possiamo dire che è replicabile?

«Assolutamente. Replicabile sia a Padova sia al di fuori dove hanno applicato il protocollo messo a punto da noi e accettato dai colleghi del Centro Nazionale Trapianti. Ed è il protocollo che al momento verrà impiegato in Italia. Dopo l’operazione dell’11 maggio ci sono stati altri tre trapianti da donatore a cuore fermo: il secondo a Verona, il terzo di nuovo a Padova e il quarto a Torino.

gino-gerosa-4-293x650A proposito di nuove frontiere della cardiochirurgia, quali sono quelle già in essere?

«Attualmente siamo in grado di correggere le alterazioni strutturali cardiache senza dover ricorrere alla circolazione extracorporea e senza fermare il cuore del paziente. Operiamo a cuore battente, grazie alla cardiochirurgia microinvasiva che prevede l’utilizzo di strumentazioni molto sofisticate».

Anche nei bambini?

«Sì, nonostante sia più difficile. Possiamo utilizzare la cardiochirurgia microinvasiva anche nei pazienti più piccoli».

Qual è invece la cardiochirurgia del futuro?

«L’utilizzo avanzato della stampante 3D. Oggi crea modelli degli organi perfettamente uguali a quelli da operare, aiutando il chirurgo a organizzare al meglio l’intervento, forse in futuro potrebbe stampare pezzi di ricambio, come tessuti e organi, usando le cellule del ricevente. Ma qui parliamo proprio di anni luce avanti».

Dopo aver “resuscitato” un cuore fermo quindi pensa al cuore artificiale

«Si, per poter dare una risposta a quei pazienti in attesa di trapianto che non riusciamo a soddisfare. Un cuore artificiale totale di sviluppo italiano, da mettere a punto nella sua forma definitiva e non come ponte al trapianto. Piccolo, silenzioso, che sia biocompatibile per garantire non solo la sopravvivenza dei pazienti, ma anche una adeguata qualità di vita. Ma soprattutto per dimostrare che è possibile sviluppare un cuore artificiale che sia anche per le donne, quello a disposizione è troppo grande. Sarà un cuore artificiale italiano gender friendly. La vera soluzione giungerà quando avremo a disposizione un cuore artificiale prontamente disponibile, sullo scaffale. Allora non saremo più costretti ad aspettare la morte di un donatore per dare una soluzione a chi attende il trapianto».

Il cuore artificiale si rende necessario per la carenza di donatori?

«Sì, oggi la morte cerebrale post traumatica si è quasi azzerata, quindi i donatori d’organo sono persone colpite da morte cerebrale per eventi ischemici o emorragici cerebrali. Questi donatori sono più anziani e presentano fattori di rischio quali l’ipertensione o il diabete che se non impattano negativamente organi quali fegato, reni e polmoni, spesso deteriorano il cuore. Ecco perché ci sono sempre meno cuori da poter trapiantare: devono essere perfetti, senza alterazioni strutturali»

E’ auspicabile attingere dai fondi del Pnrr per lo sviluppo del cuore artificiale?

«Quando sento dire che non ci sono abbastanza progetti per i fondi del Pnnr resto sorpreso; questo è un progetto d’interesse nazionale, a valenza mondiale e di estrema importanza per le donne. Mi risulta difficile comprendere come non si possa attingere da questi fondi per finanziare il cuore artificiale».

Anche perché questi finanziamenti nascono proprio per riparare i danni economici e sociali della pandemia e soprattutto per la ricerca e la sanità.

«Assolutamente, per una sanità del territorio e per creare una rete efficace tra ospedale e territorio stesso utilizzando quello che la tecnologia ci mette a disposizione: pensiamo alla telemedicina».

I vari trattamenti cardiochirurgici ai quali può essere avviato il paziente con scompenso cardiaco avanzato richiede elevatissime professionalità e costosissime tecnologie. Lei crede che la centralizzazione dei pazienti presso centri di eccellenza come il suo a Padova possa essere coordinata per quelle regioni che di tali centri sono sprovviste?

«E’ cosi. Equità assistenziale vuol dire garantire a ogni cittadino, indipendentemente dalla sua localizzazione sul territorio nazionale, le stesse opportunità di cura. La rete è già in funzione ma può essere ulteriormente migliorata.

Magari mettendo da parte anche un po’ di rivalità tra aziende ospedaliere?

«l’Italia è il Paese dei campanili. Fare squadra, in Italia, è importante, soprattutto in momenti in cui ci sono delle difficolta economiche in cui devi ottimizzare l’utilizzo delle risorse e la gestione».

 



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