“Le Chat Noir”, l’umanità sul palco

RECENSIONE - Secondo appuntamento con la rassegna "Perugini". In scena al Lauro Rossi dai tipi della “Compagnia dell’orso” di Lonigo (Vicenza)

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Il cast al completo

di Fabrizio Cortella

Le Chat Noir è un bar di periferia del Veneto, uno come tanti, niente a che vedere con il famoso locale di Montmartre, quello in cui si riuniva il meglio della bohème parigina di fine Ottocento. L’unica cosa che li accomuna è la leggenda relativa al nome: derivato dal gatto nero che stazionava da quelle parti, mentre si allestiva il locale. Ah sì, anche da un’altra cosa: la cameriera è francese… e non ha voglia di fare un tubo! le_chat_noir-4-325x217Ma “Le Chat Noir” è anche il titolo dello spettacolo messo in scena domenica al Lauro Rossi dai tipi della “Compagnia dell’orso” di Lonigo (Vicenza) per la seconda giornata della 51^ Rassegna A. Perugini e che ha debuttato appena pochi mesi fa, in aprile. La chiave metateatrale dell’opera ci viene svelata fin dall’apertura del sipario: nel breve prologo, senza parole, un cono di luce colore azzurro-cenere piombante dall’alto incornicia un groviglio di corpi. Al centro si trova Ciano, barman-cantastorie, il motore creatore della narrazione. Ritto in mezzo al palcoscenico, attorniato dagli altri personaggi, è il demiurgo che insuffla la vita nei fantocci di carne e di ossa, emblematicamente scalzi. Ad ogni suo schioccare di dita, una delle creature si anima e comincia a blaterare confusamente, in una parodia di esistenza reale.
«Come ogni bar, anche Le Chat Noir è gremito di storie ed è frequentato da tipi umani di ogni genere. Le loro vicende personali si incontrano e si scontrano in un alternarsi di cose dette e di cose non dette, di parole vaghe e di silenzi eloquenti»: così nelle parole di Paolo Marchetto, il giovane autore, regista e attore, vero “uomo-ovunque” della compagnia. Uno alla volta, entrano i numerosi personaggi, alla fine saranno dieci, in “devoto pellegrinaggio” da Ciano. Egli troneggia, al centro della scena, da dietro il suo grande bancone, un vero bancone funzionante e ben assortito (opera di Lucia Buratto), da dove smista il traffico degli avventori, ognuno con la sua storia: il postino che si prende ampie libertà sul posto di lavoro; l’imprenditore senza scrupoli, ora vittima della crisi economica; l’insegnante piombata nell’abisso del gioco d’azzardo e dell’alcol; il direttore di banca, rampante ed ipocrita; la escort di lusso ansiosa di vero amore e di riscatto. Ad ogni nuovo arrivato, il barman-cantastorie congela letteralmente l’azione drammaturgica (cono di luce piombante su di lui, penombra su palco e attori immobili) per raccontare agli spettatori ciò che se ne dice pubblicamente. Ma la trovata registica del “freeze frame” alla lunga annoia: i profili sociologici sciorinati sono piuttosto stereotipati e prevedibili, delineando assai poco le caratteristiche dei personaggi che, in definitiva, rimangono dei semplici “tipi umani”: la escort, il direttore, l’imprenditore, appunto.
le_chat_noir-3-325x217Pencolante tra i toni della commedia leggera e quelli del dramma piccolo borghese, l’azione sembra destinata all’inevitabile impasse allorquando si materializza il coup de theatre: un uomo mascherato irrompe nel bar impugnando la pistola. Minacciando di fare una strage, con disarmante facilità riesce a costringere tutti i presenti a raccontare la loro vera storia, senza omissioni e infingimenti. Venuta meno l’ingombrante presenza del Ciano-demiurgo, l’intreccio può così dipanarsi liberamente: i personaggi si rivelano diversi da come ci sono stati presentati e desiderosi di perseguire obiettivi loro propri. La trama si tinge inaspettatamente di giallo, anzi di noir, finché il timido, ma schizoide Fabrizio (Marchetto medesimo, convincente nel tratteggiare con umanità l’unico vero personaggio comico della commedia) si impossessa della pistola, la punta risoluto alla testa della escort da lui segretamente amata e… ennesimo “fermo-immagine” del barman-cantastorie che ci rivela di trovarsi nell’imbarazzo di non sapere come terminare la sua narrazione. Ma, stavolta, i suoi personaggi si ribellano: hanno il corpo congelato, ma la lingua è ben sciolta. E la usano per rinfacciare al loro autore la totale mancanza di originalità creativa, “spoilerando” agli spettatori tutte le fonti colte che ha così pedestremente saccheggiato: Sei personaggi in cerca d’autore, Happy family di Gabriele Salvatores, Il dio della carneficina di Yasmina Reza e così via. Non basta: gli fanno brutalmente notare che, se lo spettacolo finora ha funzionato, è solo per merito delle loro iniziative personali, e non per la mediocre fantasia del loro creatore. le_chat_noir-2-325x217Messo alle strette, il Ciano-demiurgo impone la propria dispotica, ancorché legittima, volontà autoriale e, nel proclamare: “Ricominciamo da capo!”, decreta la fine dell’atto unico. Il sipario cala sugli applausi di apprezzamento degli astanti, misto al sollievo per lo scampato pericolo del paventato “ricominciamo”. Nonostante il carente approfondimento psicologico dei personaggi, la pièce ben si regge sulla solida prova attoriale d’assieme. Sebbene qualcuno sia apparso un poco sopra le righe e qualcun altro un poco dimesso, la recitazione risulta omogenea: obiettivo niente affatto scontato allorché la scena è così “piena”. Complici le musiche originali di Alberto e Leonardo Schiavo, eleganti e dal mood intrigante, e il binomio scenografia-luci semplice, ma appropriato, la macchina recitativa ha girato al giusto ritmo conferendo compattezza e completezza allo spettacolo di questa giovane compagnia. È vero: l’autoironia palesata così candidamente in quel finale-non-finale suona un po’ come il furbo stratagemma di chi non riesce a venire fuori dalle secche creative. Tuttavia, va riconosciuto e valorizzato l’indubbio coraggio di avere realizzato “ex nihilo” un’opera ambiziosa e di averla sfrontatamente proposta laddove colleghi ben più rodati preferiscono andare sul sicuro con i soliti drammi di facile presa presso il pubblico.

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