di Ugo Bellesi
Sapevamo che l’Italia è impreparata ad affrontare le grandi crisi economiche e assai meno preparata contro le catastrofi ambientali. E i terremotati del 24 agosto 2016 lo hanno capito purtroppo a loro spese e ne sono testimoni. Ma che fossimo in coda a tutto il mondo non ce lo saremmo mai aspettato. Ed invece è proprio così. Infatti uno studio congiunto, di Swiss Re (la più grande compagnia di riassicurazione del mondo) e della London School of Economics, ha consentito di compilare un indice di resilienza con cui si misura la capacità dei vari paesi del mondo di reagire ad eventi negativi straordinari. In questa classifica l’Italia è penultima, al 30° posto, davanti solo alla Grecia. A questo punto è tutto chiaro. La colpa di quanto successo a danno dei terremotati non è colpa di questo o di quel governo, di questo o di quel commissario, ma è assolutamente colpa di una struttura dello Stato che non ha voluto mai farsi carico di un problema fondamentale: la messa in sicurezza del nostro territorio nazionale in modo tale che le catastrofi non siano così drammatiche da mettere in ginocchio intere regioni. Nel Dna della nostra nazione non c’è il concetto di prevenzione. Ma nel nostro caso, quello che riguarda ben quattro regioni dell’Italia centrale, non solo non si è fatta prevenzione ma non si è avuta neppure una strategia per intervenire subito dopo. Ed infatti, dopo tre anni dal sisma, ci troviamo ancora in mezzo al guado e non si vede nessuna luce in fondo al tunnel.
Il coordinamento dei Comitati terremoto del centro Italia, nel suo ultimo comunicato, ha giustamente evidenziato che dei 22 miliardi stanziati per la ricostruzione ne sono stati utilizzati appena 200 milioni. Più di 3.800 famiglie vivono nelle Sae, più di mille persone del cratere sono ancora negli alberghi e nelle strutture ricettive, ci sono 50mila sfollati e ancora quasi 800mila tonnellate di macerie da rimuovere. Gli stessi Comitati terremoto ci hanno ricordato che «Per la ricostruzione ci sono 114mila schede di agibilità e danno ancora da visionare. Stando al trend attuale ci vorranno cento anni per smaltire le pratiche per la ricostruzione degli edifici danneggiati. Tempi troppo lunghi perché nel frattempo sarà fallita la ricostruzione più importante: quella sociale ed economica dei nostri paesi».
Stando così le cose è evidente che la fine dello stato di emergenza non potrà essere fissata al 31 dicembre 2019. Ma non è detto che sia così. Lo stesso capo della Protezione civile Angelo Borrelli ha dichiarato in proposito: «La proroga dello stato d’emergenza credo sia una cosa dovuta. So che il governo sta lavorando per emanare un decreto legge con misure ulteriormente incisive e straordinarie e credo lo farà a breve». Più oltre però ha aggiunto una frase che mette in dubbio la proroga dell’emergenza. Infatti ha precisato: «Le misure che sono previste nei provvedimenti, ancorché dovesse chiudersi lo stato d’emergenza, dovranno dispiegare effetti fino a quando non sarà conclusa la ricostruzione».
Ma la data del 31 dicembre 2019 è “fatidica” anche per un altro motivo. Infatti è stata rimandata a quel giorno la restituzione della busta paga pesante. Anzi sarà più “pesante” perché ci saranno due rate in più, anche se è consentito il pagamento rateale. E anche per questo il Coordinamento dei comitati terremoto centro Italia ha reagito energicamente con queste parole: «Il terremoto ci ha distrutto le case, il governo ci toglie la dignità. La misura è colma dopo l’ennesimo emendamento spot sulla proroga dei termini della busta paga pesante, infilato a una manciata di giorni dalla scadenza nel ‘decreto clima’. Il governo conferma una mancanza di rispetto, rimandando di un paio di mesi la restituzione dell’Irpef. Il problema viene posticipato, senza trovare soluzioni». Ma poi il Coordinamento aggiunge: «Attendiamo di conoscere il testo, ma a quanto pare la proroga non comprende i contributi previdenziali per le imprese: un segno di totale disattenzione per chi cerca di lavorare per una ripresa economica». E quindi la stoccata finale: «Il nuovo anno ci porterà la ripresa dei pagamenti delle utenze e delle rate dei mutui, anche sulle case ridotte a cumuli di macerie».
Notizie non buone vengono anche da Camerino. Infatti l’ingegnere Roberto Di Girolamo, accompagnando alcuni visitatori nel centro storico, ha così commentato la situazione: «Intorno a noi ci sono 400 edifici tutti distrutti. Se ne salvano dieci, forse quindici. Comunque ben pochi. Il resto è tutto da rifare. Oltre venti palazzi potrebbero anche essere demoliti. La ricostruzione di una casa, qui dentro, non è come quella di una casa singola isolata in campagna. Camerino è un sistema complesso, dove ogni edificio interagisce con tanti altri, ed ogni mossa che fai ha delle conseguenze. Non si può ricostruire con le leggi ordinarie».
Sul fronte dei cantieri è peggio che andar di notte. «Purtroppo – ha dichiarato Daniel Taddei, segretario provinciale della Cgil – l’anno è iniziato nel peggiore dei modi, con un morto in un cantiere della ricostruzione. Ci risulta inoltre che molti infortuni non vengono denunciati, o fatti passare per malattia, per la pressione delle aziende ma anche per il rischio del dipendente, spesso precario, di perdere il lavoro. Ma bisogna anche considerare che il sistema di prevenzione e controlli non funziona. E’ del tutto inadeguato». Taddei mette anche in evidenza che a fronte dell’esigenza di maggiori controlli e più prevenzione non c’è un aumento delle risorse e «tutti gli uffici preposti a questo scopo sono in carenza di organico». In merito al cosiddetto “decreto Sblocca cantieri” Taddei ha dichiarato di aver chiesto una modifica in quanto «L’appalto non può essere assegnato a chi fa il massimo ribasso, dietro al quale c’è una compressione dei costi, spesso quelli della sicurezza, ma a chi fa l’offerta migliore». Sul problema della prevenzione degli infortuni la segretaria regionale della Cgil, Daniela Barbaresi, ha reso noto che i tecnici della prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro sono soltanto 56, ovvero l’8% di tutti gli addetti dei Dipartimenti prevenzione.
Altra notizia non buona ci arriva dal vicino Abruzzo. Un agricoltore abruzzese, Adriano Marrama di Vittorito, dopo aver inviato un esposto alla Guardia di finanza, aveva lanciato l’allarme denunciando l’estendersi della “mafia dei pascoli” e accusava “soprattutto imprenditori del nord che affittano quote di terreni solo per incassare i fondi dell’Unione europea”. La notizia ha trovato spazio anche nel notiziario dall’Ansa ma non ha avuto l’eco che avrebbe meritato in quanto la “mafia dei pascoli” non infuria soltanto in Abruzzo ma minaccia anche le Marche. Le autorità abruzzesi, a quel grido d’allarme, avevano risposto sottolineando che «In Abruzzo la legge regionale n.3 del 2014 ribadisce come le superfici demaniali destinate al pascolo siano assegnate con priorità assoluta agli allevatori locali che detengono effettivamente il bestiame oltre che la residenza». Ma si sa bene come vanno queste cose perché è facile trovare un prestanome del posto che poi, in cambio di qualche regalia, trasferisce i contributi dell’Unione europea ai grossi imprenditori del nord e del sud.
Abbiamo incontrato alcuni pastori del nostro entroterra i quali ci hanno confermato che il fenomeno esiste ma non hanno saputo o voluto indicare né i Comuni coinvolti né qualche località specifica. D’altra parte in tempi non sospetti anche Legambiente aveva segnalato la presenza nel nostro territorio dell’ecomafia. Non va infatti dimenticato che Francesca Pulcini, presidente di Legambiente Marche, ci aveva ricordato che per il ciclo dei rifiuti Macerata è al primo posto nelle Marche con 62 infrazioni, 58 denunce e 21 sequestri. Anche per quanto riguarda il ciclo del cemento Macerata è sempre in testa alla classifica con 55 infrazioni e 68 denunce. La Fillea Cgil di Macerata, che già al tempo della costruzione delle “casette” aveva segnalato numerose irregolarità con lavoratori in nero, sottopagati, con tariffe inferiori alle attività svolte, ora ha concentrato la sua attenzione sulla costruzione delle scuole denunciando uno sfruttamento preoccupante e dilagante nei cantieri del post sisma. Non solo alcuni operai lamentano pagamenti in ritardo di mesi ma anche alcune ditte locali, che hanno fornito i materiali, si trovano in gravi difficoltà perché hanno anticipato le spese in attesa dei pagamenti da parte delle imprese appaltanti. Ma le preoccupazioni sono anche altre: «Da un controllo in Cassa edile – spiega Massimo De Luca, segretario della Fillea – risulta che le maestranze impiegate hanno per la maggior parte livelli da manovale. Come si può mettere in opera un progetto con la stragrande maggioranza di manovali? Le opere vanno fatte a regola d’arte».
Che fate passeggiate solo l'inverno sta tornando ma voi nelle vostre ville non ve frega niente
22 miliardi di euro stanziati da chi ??
Però in Italia si mangia bene ...Pagliacci
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L’ “incubo ecomafia” è da intendersi come incapacità dei politici a controllare il rispetto dei requisiti da parte delle ditte che partecipano alle gare.
Caro Giacobini, dal numero di commenti arguisco che, argomentare certe notizie, per dirla così, non è politicamente corretto.
Come detto già altre volte, seppur l’entità di questo disastro non è paragonabile a quello dell’Aquila, che allora ci sia stato il dottor BERTOLASO, inviso a coloro che poi lo hanno sostituito, in primis l’allora sindaco Cialente, che, lo ricordo, protestava con la carriola per i ritardi, ma alloggiava in hotel in riva al mare, a risolvere, immediatamente, almeno una grossa parte dei problemi, è un fatto comprovato. Mentre qui, almeno dal pezzo, sembra che la/le colpe siano del destino cinico e baro, del DNA di noi italiani, e non, dei vari personaggi, Errani, DE Micheli in carriera ecc. per le cose che intanto si potevano e dovevano fare; per esempio togliere le macerie dai centri più importanti, che avevano un substrato economico, anche solo dal punto di vista turistico. Oggi, a scusante, si elencano gli impedimenti dovuti a dei rimpalli di responsabilità, ma si omette, perché non fa comodo, di dire che, mentre con BERTOLASO c’era una linea di comando diretta e univoca, sappiamo bene chi, questa linea l’ha voluta frazionare in tanti segmenti, intersecantisi fra loro: col risultato che è sotto i nostri occhi, e lo sarà ancora per decenni.
Per non dire di chi, mentre avveniva l’incresciosa storia di “nonna PEPPINA” ha permesso che la fornitura delle Sae fosse, guarda caso, appaltata non a ditte specializzate, ma a certe totalmente inadeguate, come dimostrato dalla pessima qualità delle stesse, nonostante costi al mq di molto superiori a quelle aquilane.