di Mario Monachesi
La cucina de le case coloniche di solito era posizionata al primo piano, sopra la stalla ed era il vano più grande con tutt’intorno le camere da letto e, a volte, anche “lu camanzì” (magazzeno). Al centro di una parete c’era “lu camì'”, l’elemento più importante perché era la principale fonte di calore, sia per cucinare che per scaldarsi nelle lunghe giornate e serate invernali. La cucina era il locale dove si svolgeva la maggior parte della vita domestica, oltre ad essere il regno della vergara, era il luogo dove la famiglia (a volte piu nuclei familiari composti da genitori anziani, figli sposati con prole, qualche zitella o zitello, ecc), si riuniva. Era punto d’incontro tra adulti e bambini e di trasmissione dei saperi. Quanti racconti, da bambini, abbiamo ascoltato dagli adulti e quanto da loro abbiamo appreso.
“Lu camì'” vedeva scendere dalla canna fumaria “la catena do’ quasci sempre tramite ‘n’ancì’ (uncino) c’era ‘ttaccatu lu callà’ e, per tera, tra la rola e la vrascia c’era lu treppé’ (treppiedi) sempre prontu per pogghjacce a scallà’ la cuccuma de lo caffè o che atra pignatta co’ la robba da coce. ‘Ttaccata da che parte, non mancava mai la raticola per cocece le sargicce, le vrasciole, l’agnellu o atra carne”. Ai lati di tutto, “da ‘na parte c’era lu legnà’, dall’atra lu fornellu in muratura, co’ la vèntola” nei paraggi, sempre pronta a ravvivare i carboni accesi che li venivano messi usando “la paletta de lu focu che, li vecchj, usava anche pe’ ‘ttizzà e stizzinà’ li cippi grossi. ‘Gni orda partia ‘na marea de lute o strolleche (scintille). Negli anni sessanta, ” lu fornellu venne sustituitu da lu pipigasse co’ la vombola”. Era il progresso che incominciava ad “attecchire” anche in campagna.
“D’inguerno ‘tunno lu camì c’era chj ce tinia lu cistu co’ li purginelli a scallà’ perchè appena nati e, che orda, anche la damisciana dell’ojo posta a sdejelà’ (disgelare). Quanno tirava lu ventu contrariu, la cucina se rimpjia de fumo e, nonostante lo friddo, toccava a aprì’ le finestre. Co’ la vrascia ‘nfocata de quelle sere jacce, ce se rimpjia li scalli e le monneche pe’ li preti da mette dentro li letti. Dopo ‘na jornata de né’ e tramontana, ji a durmì’ tra quelle lenzole calle era un sognu per tutti. “Fatta la pista, su li trai se ‘ppiccava sargicce, salami e lonze a sciuccà’. Che orda lo grasso scolava su lu piancitu che era quasci sempre fattu de mattù'” (mattoni). I mobili che arredavano la stanza, non erano molti, lo stretto necessario. Al centro svettava “lu taulì’ co’ la pietra o anche de solo ligno. Otre a magnacce, ce se facia de tutto, la perna, li soli de vincisgrassi, ce se capava le virdure, mettènnoce prima ‘na coperta ce se stirava pure”. Era un piano d’appoggio per le più disparate attività. Tutt’intorno “le seje ‘mpajate”. Qualcuna più alta, “era pe’ li frichi”.
“Lu taulì’ vinia ‘pparecchjatu co’ piatti, cupi o piani a seconda de lo magnà’, furchette o cucchjare, sempre a seconda delle portate, lu vuttijó’ de lo vi, la vuttija dell’acqua, quarghe vecchjé’ (di solito non era uno per tutti) e poco atro. Su di un’altra parete faceva bella mostra “la vitrina” (o “credenza”), nient’altro che due mobili sormontati uno sull’altro, dove nella parte bassa c’era uno spazio chiuso da due ante con dentro piatti non di uso quotidiano e altri oggetti quali “mattarellu pe’ la pasta, vattilardo, mannarì, ramajoli, stacciu, fiamminghe, teje, schjumarola, grattacascia, culì'” (anche “passì’), più due cassetti in cui si custodivano tovaglie, tovaglioli, spare, ecc. La parte superiore, invece, era “la vitrina” vera e propria, con gli sportellini in vetro dove stavano in mostra oggetti in vetro o cristallo come ” lu servizi de li vicchjrì’ a calice”. Sempre negli anni ’60 arrivò la “cucina ‘conomica”, una stufa a legna con forno, piano cottura, serbatoietto per l’acqua calda e attorno “a lu tubu de lo fumo, un jiru de stecche per mettece a ‘sciuccà’ li pagni. “In quarghe atru angulu c’era lu sciacquató'” (lavandino per lavare i piatti), costituito da una grossa pietra in granito con “du’ vaschette”. Sul ripiano trovava posto “la vrocca dell’acqua e lu scolapiatti”. Piatti che “spisso vinia rlàati co’ l’acqua de cuttura de la pasta”. Lo spazio sottostante era coperto da una tendina e dentro vi erano riposti piccoli paiuoli in rame e grosse pentole, nonché “lu sicchju de la vroda pe’ li porchi”. Su di un altra parete trovava posto “l’ardarì'”, una piccola rientranza con dentro l’immagine della Madonna e qualche fiore. Non mancava mai la “parma venedetta” e magari quarghe foto de quarghe caru defuntu”. “Tante cucine ci-avia su lu piancitu la gattarola”, una botola, con sportello in legno, che tramite una scala scendeva, senza dover uscire di casa, nella sottostante stalla. Era un modo che i contadini avevano per stare più vicino, in caso di urgenze, ai loro animali. “Quanno che vacca fijava de notte”, l’agricoltore dal letto raggiungeva in un salto la stalla.
Negli anni ’30 arrivano i primi acquedotti e l’acqua non occorre piu andarla a prendere “co’ le vrocche” nei pozzi. Fino agli anni ’40 l’illuminazione era a petrolio o a carburo, proprio in quegli anni arrivano i primi precari impianti elettrici attraverso “la piantina (filo) vollata su li muri”. Negli anni ’50 arriva, ad allietare le serata, la radio. Tutti incollati ad ascoltare i notiziari, il festival di Sanremo ed altri storici programmi. Negli anni ’60 è la volta della televisione. Nonostante la cucina inizi ad essere “moderna e piu laica”, non c’era sera che non vi si recitasse “lu rosariu”. Li fidanzati cuntinuavano s vedesse èllo, sotto l’occhju controllore de li ginitori”. Utensili che non abbiamo nominato ma che, posti su qualche mensola, ripiano o angolo di mobile, facevano parte della cucina erano: “lu macinittu pe’ lo caffè, lu ‘bbrustulitore, la velancia, le cucchjare de ligno, le forbece per tajà’ lu pollastru, lu curtellu de lo pa’, lu mortà’, li cuperchj de le teje, la spianatora, lu sarvaì, li stampi pe’ la crema, lu cacciafoje, la conchetta, lu vrucchittu dell’acqua, le vuttije dell’ojo e dell’acito, lu scupittu, la scopa de melleca, ecc, ecc. Come in tutte le stanze del piano, alle finestre non c’erano tende ma “li scuri”. D’estate vi veniva appesa “la striscia de carta velenosa pe’ ‘cchjappà’ le mosche (carta moschicida).
Ho rivisto e rivissuto ogni dettaglio descritto dai racconti dei miei nonni e dalle memorie di bambina!
Così è ancora nella casa dei mezzadri di Petriolo,purtroppo inagibile per il terremoto
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sarebbe importante ripristinare quei modi di vita, sia dal punto alimentare ma soprattutto per la socializzazione e la qualità della vita.
questa volta Mario Monachesi è stato eccezionale.