di Mario Monachesi
Se vuoi offendere qualcuno “dije scarciofinu”, ma se vuoi gratificarlo, omaggiarlo o prenderlo per la gola, “cucineje ‘na frittata co’ li scarciofini”, o “fajili su la padella co’ l’erbette, l’aju, l’ojo, lo sale e ‘na spruzzata de vi’ bianco”. Il carciofo, nel dialetto maceratese anche “scarciofulu” o “pallucca”, un tempo veniva cucinato dalle nostre nonne anche “arustu su la vrascia usenno ‘na raticola co’ li vusci” (oggi forse introvabile), alll’interno dei quali, previo condimento con olio, aglio e sale, venivano posizionati per la cottura. A quei tempi, specialmente in campagna, era un ortaggio esclusivamente di stagione, non c’erano modi di conservazione. Le vergare lo preparavano per cena, e neanche troppo spesso, una volta a settimana era obbligo “portalli a lu patró'”. Chi nell’orto aveva la possibilità di coltivarne qualche pianta in più, “li portava a venne per pijiacce che sordu da spènne pe’ l’urgenze de la casa”. Il carciofo (“Cynara scolymus”, selezionamento dal cardo “Cardo cardunculus”), appartiene alla famiglia delle Asteraceae, originario del Mediterraneo, la sua coltivazione viene introdotta in Europa dagli Arabi sin dal ‘300, ma notizie dettagliate sul suo utilizzo risalgono al ‘400, quando dopo vari innesti nelle zone di Napoli, si diffuse dapprima in Toscana poi in molte altre regioni Marche comprese.
Dapprima non godette di troppa fama culinaria, tanto che ai primi del ‘500 Ludovico Ariosto affermava: “Durezza, spine e amaritudine molto piu vi trovi che bontade”. Successivamente iniziò a comparire nei trattati di cucina dove veniva spiegato anche come trinciarli. La stessa Caterina de’ Medici ne divenne golosa estimatrice, quando quattordicenne sposò il futuro Enrico II lo esportò in Francia. Ne mangiava cosi tanti che data la loro reputazione di alimento “eccitante” scandalizzava non poco i più puritani della Corte. Dalla Francia all’Inghilterra il passo fu breve e ne divenne piu che ghiotto anche Enrico VIII. La fama afrodisiaca “de li scarciofini” andò di pari passo con la loro diffusione. Oramai ben radicata, nel 1557, Pietro Andrea Mattioli (medico e umanista) nei suoi “Discorsi” scrive: “La polpa dei carciofi cotti nel brodo di carne si mangia con pepe nella fine delle mense e con Galanga per aumentare i venerei appetiti”. John Evelyn, nel suo “Acetaria: A Discourse of Saliets” (1699) elenca diversi modi di preparare i carciofi: “Le teste devono essere divise in quarti, prima di essere consumate crude, con olio, aceto, sale, pepe. È bene accompagnarle con un bicchiere di vino. Quando ancora sono piccoli e teneri, sono buoni anche fritti nel burro e conditi con il prezzemolo, i fondi possono essere usati per preparare torte. In Italia i carciofi alla griglia vengono conditi con olio d’oliva e serviti con succo d’arancia e zucchero”.
La marcia trionfale “carciofiana” non conobbe soste neppure nei secoli successivi, tanto che ai primi dell’800 il grande gastronomo Grimod de La Reyniere decanta: “Il carciofo rende grandi servigi alla cucina: non si può quasi mai farne a meno, quando manca è una vera disgrazia. Dobbiamo aggiungere che è un cibo molto sano, nutriente, stomatico e leggermente afrodisiaco”. Un passo indietro. Già nel “De re coquinaria” di Marco Gavio Apicio (gastronomo, cuoco e scrittore, vissuto a cavallo fra il I secolo a. C. e il I d. C.) si parlava di cuori di Cynara che i Romani pare apprezzassero lessati in acqua e vino. Ciò che distingue i diversi tipi di carciofo sono le spine che possono essere presenti o meno e il colore può essere verde tendente al grigio o violetto. Tra le varietà più famose, quali quella romana (“Chj li vole a la romana, / chj li vole a la judia, / lu scarciofinu non manca mai su lu piattu mia”), quella sarda, siciliana, spicca per bontà e gusto anche il “carciofo di Montelupone”. Detto “l’oro de Montelupó'”, esso è senza spine, dal colore rosso porpora e striature verdi.
Questo succulento prodotto del territorio maceratese gode del marchio De. Co. (Denominazione comunale di origine – Res Tipica) e di recente gli è stato attribuito il marchio Slow Food. Dal 1961 viene “festeggiato” ogni anno, a maggio, nel corso di una importantissima sagra. Un tempo ad una persona un po’ “indigesta” si diceva: “Si simpaticu come lu scarciofinu da pulì'”. Secondo il mito greco, il carciofo è nato grazie a Zeus che, in visita a suo fratello Poseidone, avvistò sulla spiaggia una splendida ragazza di nome Cynara. Si innamoró immediatamente di lei e, dopo averla sedotta, la trasformò in una dea e la portò con se sul monte Olimpo. Cynara, però, si sentiva sola. Le mancava la madre, così un giorno tornò di soppiatto sulla Terra a visitare la sua famiglia. Questo sotterfugio fece infuriare Zeus che, in un impeto di rabbia, gettò Cynara giù dall’Olimpo e la trasformò in un carciofo.
Un vecchio stornello “a dispettu” cosi ancora canta: “Fiore de cardu / te vojo fa’ ‘na vuscia sotto un coppu / te vojo fa sta’ zitta musu da porcu”.
Nella pittura rinascimentale italiana, il carciofo è rappresentato in diverse opere: “L’ortolana” di Vincenzo Campi, “L’estate” e “Vertumnus” di Arcimboldo, “Cucina” di Floris van Schooten, “Natura morta di asparagi, carciofi, limone e ciliegie” di Blas de Ledesma. Si narra che il Caravaggio un giorno ferì il cameriere di un’osteria reo di non avergli dato sufficienti spiegazioni circa un piatto di carciofi che gli aveva appena servito. “Magnate li scarciofini”, aiutano la digestione, sono ricchi di antiossidanti, abbassano i livelli di colesterolo “cattio”, sono diuretici (fanno “piscià'”), cregolano il transito intestinale (fanno “ji da corpu”), proteggono “lu feghitu” e sono adatti ai diabetici. L’acqua della loro cottura può essere riutilizzata per zuppe e minestre, i gambi, dopo averli privati dei loro esterni, possono essere consumati crudi nell’insalata. I carciofi contengono poche calorie, solo 22 ogni 100 grammi (indicati quindi per le diete dimagranti), ricchi di potassio e sali di ferro, hanno poche vitamine. Annoverano “Cinarina” a cui si deve il sapore amarognolo.
Chi non ricorda, tra i più anziani, gli spot di Carosello che dal 1966 al 1984 hanno visto Ernesto Calindri sorseggiare come digestivo o aperitivo un bicchierino di Cynar? Seduto beatamente all’incrocio di due trafficate vie, sottolineava che quel “liquore a base di carciofo” era il miglior antidoto contro “il logorio della vita moderna”. Una curiosità vuole che nel 1949, la grande Marilyn Monroe, venne eletta prima “Regina del carciofo” nel corso del festival dell’omonimo “frutto”, di Castroville in California. Nel 1971, il poeta cileno e Premio Nobel per la Letteratura Pablo Neruda, scrive il poema “Oda a la Alcachofa” (Ode al Carciofo). Nel primo verso così scrive: “Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero, / ispida edificò una piccola cupola, / si mantenne all’asciutto sotto le squame…”. Oggi i carciofi vengono conservati in più modi, sia sott’olio che in congelatore. Per il primo caso, togliete le foglie più dure, fino alla parte piu tenera. Strofinateli con il limone per non farli annerire, metteteli a lessare con aceto, olio e sale, e poi ancora caldi sistemateli in barattoli di vetro e copriteli d’olio. Una volta chiusi, fate bollire a bagnomaria per altri 4 o 5 minuti. Conservare in luogo buio e asciutto per almeno un paio di mesi. Per il secondo caso, prepararli come sopra, lessare in acqua e limone (succo e limone stesso) per 4 o 5 minuti, metterli a scolare su di un panno e appena freddi, sistemarli nei sacchetti per alimenti e deporre gli stessi nel congelatore.
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