In una sala gremita di studenti, giovedì 8 novembre, nell’Aula A di Economia si è discusso di Eros e Traduzione. Ospite d’onore il poeta Andrea Ponso, vero esperto del tema. Ponso ha studi importanti: una laurea magistrale in Teoria della Letteratura, conseguita a Padova; un PhD in Lingue e Letterature comparate presso le università di Macerata e di Lille. Inoltre, gli studi liturgici, l’insegnamento e una lunga consuetudine così con la poesia biblica ebraica, come con la poesia francese e inglese moderna. Ha da poco pubblicato la sua nuova traduzione dall’ebraico del «Cantico dei Cantici». Invitato da Marcello La Matina, che a Macerata insegna Filosofia del linguaggio e si occupa del “Cantico” fin dai tempi in cui era allievo del grande linguista János S. Petőfi, ha dialogato con lui e con il folto pubblico intervenuto sul tema “Linguaggi, eros e traduzione”. Non si è trattato di una lezione cattedratica, quanto piuttosto – secondo le intenzioni dei due dialoganti – di una conversazione da due voci, nella quale pian piano si sono inserite le voci degli studenti che hanno preso la parola. Sì, perché la conversazione era affascinante ed è riuscita a stimolare nell’uditorio una vera curiosità su questo poema d’amore che è anche uno dei testi più intensi della Bibbia. Leggerlo, ha detto Ponso, significa «lasciarsi inondare dal testo, lasciarsi spogliare e disumanizzare, poi che il Cantico insegna che amore è come morte, che per amare si muore a se stessi, vivendo nell’altro, per l’altro, dell’altro».
Il dialogo sulla traduzione del «Cantico dei Cantici» ha cercato, per quanto possibile, di incontrare con sorpresa la Sapienza “agli incroci”, come dicono le Scritture, di varie discipline che, spesso, vengono tenute separate: la letteratura, la Scrittura Sacra, l’antropologia, la liturgia e la teologia, la filosofia dei linguaggi e i codici spesso asfittici di una concezione ristretta della logica pedagogica a cui siamo abituati, mostrando che, come nella dinamica vivente e amorosa del Cantico, è l’amore delle parti – nel suo farsi azione e pratica partecipativa e immersiva prima che comprensione concettuale o dottrinale, proprio come accade nel rito – a costituirsi come centro di una rete complessa e mai riduttiva del senso relazionale di ogni attività umana incarnata in una forma di vita particolare e unica, in perenne e umile metamorfosi e conversione.
L’eros della traduzione sembra quindi essere proprio l’abitare questo spazio dell’evento di con-versione, così come ogni versione di un testo o di un atto non verbale di linguaggio è sempre una versione con l’altro singolare in vista di una comunità che, nella sua debolezza, incontra le “viscere di misericordia” dell’amore, capaci di fare spazio all’alterità custodendola in quanto alterità, per poi ridarla alla luce come frutto d’amore che ci supera e ci sorprende nella sua grazia inattesa. In questo senso, l’imprendibilità e il desiderio dei due protagonisti del Cantico e di ogni vero rapporto indica, ad un tempo, la conciliazione con la nostra finitezza e la relazione necessaria con la trascendenza – una trascendenza che non riguarda solamente la fede religiosa, ma anche il superamento di ogni sapere gelosamente chiuso in se stesso e incapace di generare, nell’orecchio e nel corpo sensibile dell’uomo, attraverso la fatica del parto e dell’ascolto, un canto nuovo come cuore pulsante di ogni tradizione.
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