di Mario Monachesi
Di origine molto antica, il saltarello era un tempo la danza più diffusa nell’Italia centrale, dalle Marche all’Umbria, dal Lazio all’Abruzzo e al Molise. In queste due ultime regioni era detto saltarella, al femminile. I contadini lo ballavano sulle aie, al termine di importanti lavori nei campi, quali “lo mète” (mietitura), “lo vatte” (trebbiatura), “lo scartoccià'” (spannocchiatura), “le velegne” (vendemmia). Al termine di una lunga e dura giornata di lavoro, era per giovani ed anziani fonte di allegria e sana spensieratezza. Eseguito principalmente con tacco e punta del piede, il saltarello esprimeva infinita voglia di divertimento. Conosciuto come il ballo del corteggiamento e del farsi corteggiare, al ritmo della sua musica nascevano amicizie e amori, per i “fandelli e le fandelle” (giovanotti e giovanotte) era uno dei pochi modi per dichiarare o far capire il proprio amore o le proprie intenzioni. Ogni coppia ballava a turno, cercando anche di personalizzare (per dimostrare tutta la bravura e quindi fare colpo sulla persona desiderata) la propria bravura. Gli spettatori intorno incitavano i ballerini con grida, battito di mani e fischi. Il saltarello era detto anche “ballo staccato”, perché un tempo l’uomo e la donna non si potevano toccare, le coppie danzavano tenendosi per mezzo di un fazzoletto, per non sfiorarsi nemmeno. Erano i tristi tempi in cui una ragazza avvicinata per strada da un ragazzo, era irrimediabilmente compromessa.
Le figure principali e caratteristiche che componevano”lu sardarellu marchigianu” erano tre: “spondapè (o “scarpetta”), “lu filó” (o “filottu”), “lu jiru” (o “lu fru”). Nella prima “lu vallirinu” stava al centro e batteva i piedi in deciso atteggiamento di ammirazione “de la vallirina”, che contemporaneamente gli danzava intorno. Nella seconda i ballerini si avvicinavano e, affiancati, continuavano a battere i piedi sul ritmo della melodia, facendo alcuni passi avanti e tornando poi al punto di partenza. Nella terza i ballerini si rincorrevano vorticosamente in circolo. Altre figure potevano essere: “la comune”, “la staccia”, “la cacciarella”. A danzare era una coppia alla volta. La donna, o teneva le mani sui fianchi o sollevava leggermente la sottana. Quando ad esibirsi era la vergara, cioè la padrona di casa, a ballare, in segno di omaggio, si alternavano ballerini sia giovani che anziani. Tutti questi salti, movimenti e figure, venivano accompagnati dalla inconfondibile musica “dell’urghinittu”, mentre il tempo (ritmo) veniva scandito da un tamburello, detto anche “ciàmpanu”, o “cimmulu”, o “ciàntimmulu”, o “cimbene”. Altri strumenti accompagnatori potevano essere, il triangolo, “la gnacchera” (o “castagnola”), “la sgrasciola” (o “raganella”).
Il nome saltarello sembra derivare dalla parola latina “saltatio”, cioè dal nome di una danza sacra romana, che i sacerdoti Salii eseguivano durante alcune feste e occasioni importanti per la comunità. Queste antichissime origini sembrano altresì provate dal fatto che i nominati sacerdoti Salii, durante le loro cerimonie, indossassero costumi che rievicavano l’abbigliamento degli antichi guerrieri centro-italici del VIII secolo a. C. In un manoscritto, compilato tra il XIV e il XV secolo e appartenuto alla dinastia dei Medici, oggi conservato al British Museum di Londra, oltre che a madrigali, ballate e mottetti, si fa riferimento pure ad alcuni saltarelli. Nel 1455, il celebre maestro di danza Antonio Cornazzano, nel suo trattato “Libro dell’arte per danzare”, descrive il saltarello come “ballo de villa” (danza rustica). Fino al XVI secolo, il saltarello è considerato danza di corte, tra il XVII e il XVIII, documenti lo attestano come ballo popolare e tradizionale del centro Italia. L’atmosfera che sprigionavano queste danze, era quella di festa e convivialità. Sembra un paradosso ma i ballerini piu agili e più resistenti risultavano di solito gli anziani. Erano loro i più impegnati e appassionati. Il suonatore di organetto era anche colui che incitava i presenti “a ballà'” e faceva in modo di far crescere e mantenere alta l’intensità della festa. Anche intonando stornelli “a batoccu” (da “batacchio” della campana), o “a dispettu” (maliziosi).
Eccone una serie:
“Se vó’ vinì’ co’ me a candà’ stornelli
portete la carozza a sei cavalli,
arza la voce a chj li sa più belli”.
☆
“Fiuri odorosi
tu canti li stornelli ‘ngiuriosi
io te li canto velli e graziosi”.
☆
“Fior de ginestra
li stornelli io li canto co’ la testa
e no’ me serve né scola né maestra”.
☆
“Io tanti ne saccio de stornelli
per quanti amanti ci-agghjo e tutti velli;
tu ‘nvece ne sai pochi e tutti vrutti
mejo jo lu fossu che li vutti”.
☆
“Dijelo vè’ fior de ginestra
io de stornelli ne saccio ‘na cesta
e se tu sai contà’ rispunni a questa:
su la finestra mia ce sta li vasi
su la finestra tua li ficcanasi”.
☆
Ok
“Fiuri a mazzittu
io de stornelli ne saccio un sacchittu
se tu sai contà rispunni a quistu:
su la finestra mia ce sta le rose
su la finestra tua le corne appese”.
Aspetta non ho finito
☆
“Fiore de sammugu
non serve che me guardi e fai l’ucchjttu
io tanto lu regazzu me lo so rfattu
più bellu assai de te e più graziusittu”.
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“Fiore de lilla
tu su la testa ci-hai li ricci a molla
ma drento li pedocchj te cce valla”.
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“Fiore de marzu
avanti casa tua ce sta lu puzzu
ci si cascatu tu testa de cazzu”.
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“Fiore de finocchju
tu che te ne stai de la de lu fossu
zompa de quà che cantimo a batoccu:
ce facimo ‘na vèlla sbitoccata
che ce fa sta bbè’ per un’annata”.
☆
“Lo venedico lo fiore de menta
vojo carpì’ la radeca e la pianta,
vojo vedé’ ll’amore dove comenza”.
☆
“Lo venedico lo fiore de fascioli
se so mischjati li vianghi e li niri,
cuscì se mmischjerà li nostri cori”.
☆
“Dite se me volete
vivo oppure morto.
Se me volete morto voi m’avrete,
ma mejo vivo, ve ce spasserete”.
☆
“E sta zittu tu
cosu stortu
non stai vè’ manco
pe’ cancellu dell’ortu”.
☆
“Fiore de pera
e statte zitta vrutta cantatora
che si fatto mmattí’ la mia somara,
a forza de cantà’ le solite canzoni
si rutto a tutti quanti li cojoni”.
☆
“Fiore de ficu
io te vuria vedé’ sopre ‘n pajaru
e io co’ ‘n sorfanellu a datte focu”.
Di questi tempi il saltarello non lo balla più nessuno, tranne in qualche rievocazione storica, grazie ai ballerini di gruppi folkloristici quali “I Pistacoppi” o “Li Matti de Montecò”, o altri di cui ora non ricordo il nome. Nonostante ciò non bisogna dimenticare che anche “lu sardarellu” è un l’elemento importante delle nostre tradizioni, della nostra cultura, del tempo che fu.
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