Antiche usanze campagnole
per scacciare l’inverno

LA DOMENICA con Mario Monachesi
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Mario-Monachesi

Mario Monachesi

di Mario Monachesi

In tempi oramai lontani, il solstizio d’inverno veniva congedato dai canti e dai suoni del “caccià’ mmarzu”. Dopo i lunghi e rigidi mesi invernali, i nostri avi desiderosi di assaporare finalmente i tepori e i vantaggi della nuova stagione, attraverso il rito augurale detto appunto di “caccià’ mmarzu”, si adoperavano a mandare via simbolicamente l’ultimo mese dell’inverno e ad accelerare l’arrivo della più “dorge” primavera. Stagione questa che in agricoltura significava, seppur con meno ansie ancora significa, risveglio della natura, frutti, mèssi, insomma la vita. Cioè il vivere, il farcela, il continuare ad avere futuro, il dare futuro ai propri figli.

scacciamarzo

Bambini rievocano lo scacciamarzo

Negli ultimi giorni di marzo erano i giovani che si prendevano la briga di girare la campagna muniti di organetto e, sostando sulle aie delle case coloniche, intonavano simpatiche strofe, che variavano da contrada a contrada. Nel nostro circondario ne sono state annoverate diverse versioni. In contrada Cimarella di Villa Potenza cantavano: “Fori marzu drendo aprì’; fori le crocchje (gemme) de lo ji (lino). Se cce dai ‘na sargicetta, non ce ‘mborta s’è piccoletta; se cce dai u’ mmecchjé de vino canderemo più carino; se cce dai ‘na forma de cascio, canderemo più adagio. Ecco vène la vergara con tre òe su la spara (tovagliolo); vène jó lu vergà’…” e via cantando e suonando.

Quando invece dalla casa colonica non si affacciava nessuno, i versi diventavano: “Te sse lama lu camì’; te sse roppe la pignola (pignatta); fòra vergara, dacce ll’òa. Se cce dai coè coè, te sse resecca tutto addè”. Questo infruttuoso finale aveva anche una seconda variante: “Quanti busci ha la callara, tanti gorbi a la vergara; tanti busci ha lu callà, tanti gorbi a lu vergà”. Ma dato che a quei tempi in campagna, colpa di una precaria se non addirittura tragica situazione economica, tutti tenevano ai propri campi e ai relativi raccolti, quasi sempre la vergara o qualcuno della famiglia usciva a deporre nella cesta dei cantori uova o salsicce. Negli ultimi tempi invece, prima che questa usanza scomparisse del tutto, il tour appena descritto veniva effettuato dai ragazzini, ma non cantando più al suono dell’organetto, bensì a quello di più chiassose “raganelle” (o “sgrasciole”), a volte semplici pezzi di canna con elementari congegni in legno, costruite da loro stessi.

Concludiamo con il testo completo di un ulteriore “Scacciamarzu”:
Forza marzu, drendo aprì’,
fòra l’oè de li condadì;
s’è lamatu lu camì,
ma s’è rrotta la pignola;
fòri, vergara, dacce l’ova.
Se ce dai quarghe cosetta
tutto lo ji te se refresca;
se che cosetta nce voli dà’,
tutto lo ji te se pozza seccà’!
Fate presto e non tardate
che dar cielo cade la brina;
fa venì’ tremarella,
dacce l’ovu e la ciammella.
Scappa fòri la vecchjarella
con tre òe su la pannella;
scappa fòri u-mmecchjarellu
con tre òe su lu cappellu;
scappa fòri la vergara
con tre òe su la spara;
scappa fòri lu vergà
con tre òe su le ma’.
E se non ce date gnende
che ve pija un accidente;
tandi chjoi su pe’ lu muru,
tandi céculi lla lu culu;
tante vollette sotto le scarpe,
tandi ceculi lla le chjappe;
tande vollette su pe’ la porta,
Tandi ceculi là la groppa.



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