di Mario Monachesi
Il mondo contadino, un tempo, era per lo più rappresentato da tre figure principali: il padrone che era il proprietario del terreno o podere, il contadino mezzadro che coltivava il terreno e il fattore che curava gli interessi del padrone. Il contadino lavorava i campi e curava la stalla, il ricavato del raccolto e del bestiame veniva diviso con il padrone. Fino agli anni ’60, tralasciando i precedenti secoli, al padrone andava il 45% e il 55% al contadino. Poi sul finire degli stessi anni, arriva l’importante conquista del 58% a favore del colono. Il padrone, di solito, era un ricco di città, un conte, un avvocato, comunque una famiglia bene in vista. Il contadino abitava la casa gratuitamente e poteva tenere un orto e allevare animali da cortile che servivano per il proprio sostentamento, per sfamare gli operai nei lavori fatti “a rajudu”, con l’aiuto di terze persone e per il padrone stesso. Li allevava anche per vendere: “lu villà / venne la gajina e compra lu vaccalà”, un pollo non bastava per sfamare tutti i componenti la famiglia, il baccalà, invece, costando di meno “ce ne scappava de più”. Il sostentamento in campagna non era cosa di facile attuazione, tanto che altri proverbi recitano: “Quanno lu contadì magna la gajina / adè ‘mmalatu issu o la gajina”, “Lu poru contadì fadiga e stenta / lu mejo pastu sua è la pulenda”, “Contadì, contadì / magna sardelle e caca stuppì”. Il mezzadro poteva lasciare il terreno, per un’opportunità migliore, dando ovviamente un preavviso per tempo, per contro il padrone poteva mandarlo via con lo stesso obbligo del preavviso. In ogni caso si faceva la stima dei beni ed in piu al contadino spettava una buonuscita. “Patró’-contadì/ su la fratta de li spí'”.
Il fattore era invece una figura tra l’incudine e il martello. Veniva stipendiato dal padrone ma nello stesso tempo doveva cercare di intrattenere ottimi rapporti con lo stesso contadino. “Faccio lu fattó’ un’annu / o me ‘rricchiscio o me danno”. Esso teneva si la contabilità ma doveva anche essere esperto di agricoltura per decidere quali colture avviare. Di fattori ve ne erano di diversi tipi, c’era quello che faceva il duro (era il più vituperato) e quello diplomatico ma nello stesso tempo doveva anch’esso controllare il contadino che non rubasse. Anche se rubare è una parola grossa, il mezzadro si arrangiava, doveva in qualche modo far mangiare e crescere i figli.
“Lu contadì ‘dè bbonu
lu contadì sa ll’arte
je freca a lu patrô’
più de ‘na mènza parte”.
I contratti di mezzadria compaiono già nel secolo IX in Toscana e tra i secoli XIII e XIV anche in Emilia Romagna, Marche, Umbria e aree limitrofe. I terreni della mezzadria ottocentesca e dei primi del novecento erano un vero ecosistema perfettamente integrato, salvaguardavano la stabilità dei suoli attraverso le varietà e la rotazione delle colture. Attraverso anche la cura di fossi, fiumi, strade, confini e boschi. La casa colonica, con appendici di capanne, stie, ripari, forni, pollai, fienili ecc ecc, era posta in buona posizione sul podere e disponeva di un aia. Per ultimo voglio ricordare, grosso modo, quanto i contadini dovevano nel corso dell’annata agricola, portare “a patrù’ e fattù’.
Patrù’: “Le gajine de Carnevale, l’òe de Pasqua, pollastri de li cavallitti (covoni assemblati a croce greca), pollastri de li Sandi, li cappù de Natale”, verdure una volta a settimana e uova una volta al mese.
Fattù : “L’ òe de Pasqua e li cappú’ de Natale'”.
Il giorno della trebbiatura sull’aia, “patró’ con signora e fattó’, erano ospiti di un tavolo, riparato dal sole e dalla polvere, per gustare in pace sia la festa del grano che i saporiti cibi della vergara.
Grazie, Mario Monachesi! Tanti ricordi raccontati da mio padre che non c'è più.
Grazie! Ho vissuto queste cose, con i miei genitori, che ora non ci sono più.. mi sono emozionata. .ho pianto,grazie di nuovo,
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Sempre interessante ricordare quei tempi che noi abbiamo vissuto. Dovresti ricordare le storie di maghi, streghe, fantasmi, eccetera, che si raccontavano la sera seduti sulla “rola” davanti al focolare. Erano storie quasi sempre vere. Fino al 1700 non era raro che i contadini incontrassero nei campi gnomi, fate e altri spiriti dei boschi, o le ondine alle sorgenti. Sono spiriti elementali della terra, dell’aria e dell’acqua. A Corridonia, nella zona di un grosso palazzo detto delle “Cento finestre” (si vede dalla superstrada), i contadini raccontavano che di notte si incontravano strani personaggi, che poi scomparivano. Quella era l’antica zona di guado del Chienti, proprio di fronte a San Claudio. Potrei dirti che anche io ho avuto, come altri, la possibilità di incontrare strani spiritelli nei pressi della fonte delle “Cento finestre”, o di sentire chiaramente gli schiocchi di energia emessi dagli gnomi, soprattutto all’interno della selva dei Bandini all’Abbazia di Fiastra. Ma voglio raccontarti un fatto a cui assistetti da bambino, quando studiavo alle elementari con mia zia Ida, maestra nella scuola del Crocefisso. Un giorno, un fattore che abitava a cento metri dalla scuola cominciò a dare in escandescenze, tanto che non riuscivano a tenerlo in diverse persone. Lo ricordo bene, poiché giocavo spesso con la figlia Franca. Il poveretto urlava: “Li diavulitti, li diavulitti che vene su dal Chienti e me vene addosso e se arrampica sugli alberi”. Ovviamente, fu preso per pazzo e portato al manicomio. Se il medico avesse avuto conoscenze teosofiche, o quelle dello psicoterapeuta Roberto Assagioli, gli avrebbe dato un fattore di realtà, dicendogli: “Ascolta, tu non sei matto. Hai solo visto spiriti elementali, in questo caso gli gnomi, che si sono materializzati per poco tempo alla tua vista. Infatti sono decine di migliaia quelli che hai visto, che correvano sui prati, nelle siepi e su alberi, in quanto questi spiriti di natura – che aiutano la natura nella sua crescita e che sono invisibili all’occhio umano, ma non a quello chiaroveggente, che li vede sotto forma di energie bianche e nere – a volte si manifestano nella forma fisica, con un’altezza di circa 15 centimetri, vestiti in calzamaglia come nel medioevo. Hai capito? Adesso, torna a casa, che non li vedrai più”. Invece, nessuno gli svelò l’arcano e quindi rimase lì…