di Mario Monachesi
La chiocciola, impropriamente chiamata “lumaca di terra” (da qui “cucciola” in maceratese), è un animale invertebrato appartenente al phylum dei molluschi. Essa striscia sul piede e utilizza la conchiglia (coccia) come difesa da condizioni climatiche sfavorevoli e da pericoli esterni. La bava argentea che lascia è un lubrificante che usa per non ferirsi. Sono provviste anche di due antenne (o corna). Da qui il famoso proverbio: “Porti più corne tu che un canestru de cucciole”. Ma questa è un altra storia. L’usanza di mangiare le lumache, arriva dall’antica Roma. Racconta Apicio, noto cuoco romano del IV secolo d. C., che le “cucciole” venivano allevate in appositi luoghi detti “cochlearia” e si potevano friggere in olio, fare alla griglia, arrostire e condire con una salsa, il Garum, pepe e cumino. Un ricettario francese della fine del ‘300, riprendendo le indicazioni di Apicio, consiglia di cuocerle in acqua e mangiarle con il pane, o di friggerle in olio con cipolla e condirle con un miscuglio di spezie. Nella Francia del XIV secolo le lumache erano disprezzate dai contadini perché ritenute dannose per le colture e definite “carne per ricchi” che le andavano a cercare con cani addestrati.
Nelle Marche esse erano un cibo gustoso, pur se occasionale, per gente di modeste condizioni. Oggi sono in pochi a cercarle. Nello stesso tempo vi sono ristoranti che servono quelle d’allevamento. Le “cucciole” venivano ( o vengono) raccolte tra maggio e i primi di novembre, dopo vanno in letargo. Comunque i periodi migliori rimangono il mese di maggio e la seconda metà di agosto, dopo le prime piogge. Infatti un proverbio recita: “piòe e dda lu sòle, se marita le cucciole”. In estate, invece, sono ritenute indigeste. Una volta correva addirittura la voce che durante il suddetto periodo facessero “l’amore con le serpi”. Dopo una pioggia fanno capolino dagli anfratti e allora è facile raccoglierle, anche di notte, alla luce di lanterne e acetilene. Interi nuclei familiari si portavano festosamente lungo fossi, prati e siepi, mai vicino a carciofi o ginestre, perché quelle trovate in quei pressi erano e sono ritenute velenose. Un altra usanza non voleva venissero raccolte nelle vicinanze dei cimiteri.
Le “cucciole” si dividono in numerose qualità, nel maceratese viene tutto semplificato in “montanare” e “cucciulù”: piccole e con il guscio chiaro o striato le prime, più gustose, più grandi e scure le seconde. Negli anni non è mutata la loro preparazione. Una volta raccolte vanno messe per 15/20 giorni in un recipiente per lo “spurgo”, meglio un sacco, nel quale è bene inserire un po’ di crusca che serve per facilitare la loro pulizia interna. Eliminato con questo procedimento il muco, vanno lavate più volte con acqua e sale, poi con acqua e aceto ed infine sottoposte a ripetuti risciacqui con acqua semplice. Una volta messe in pentola ed abbia iniziato a bollire l’acqua, all’aglio, alla cipolla, alla mollica di pane e al lievito di pane un tempo venivano aggiunti un pezzo di ferro (di solito era una chiave) e un pezzo di canna. Se l’aglio, la mollica e il lievito, nonostante la presenza del ferro e della canna, ritenuti rimedi contro il veleno, mutavano il loro colore naturale in verde significava che nella pentola vi erano delle lumache velenose. Un altro proverbio, a questo proposito, recitava: “Chj more de cucciole e de turì (funghi), maledetta la matre che lu parturì!” Se invece non si presentavano inconvenienti esse venivano cucinate in porchetta e cioè con il finocchio selvatico, pomodoro e olio. Arrivate sulla tavola le “cucciole” devono essere accompagnate con il vino, l’acqua non è affatto consigliata: “Dopo ‘gni cucciola ‘n vecchjé’ de vi'”. Una notizia di cronaca riferisce che negli anni ’50 alcuni quintali di lumache raccolte (o allevate) nelle Marche venivano annualmente esportate in Francia.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati