Vigili del fuoco al ristorante Vecchio Molino
di Fabrizio Cambriani
Partita da Pieve Torina, ha fatto il giro d’Italia in pochissime ore, la notizia dei mancati pagamenti da parte dello Stato al ristorante “il Vecchio Molino” che sin dal primo giorno delle terribili scosse di terremoto e fino ad oggi, ha cucinato tutti i giorni, ininterrottamente, per i vigili del fuoco in servizio sui Sibillini (leggi l’articolo). Sembra impossibile eppure da allora e fino all’altro ieri, le titolari del ristorante hanno ricevuto un solo mese di pagamento dal Ministero degli Interni. Nel frattempo si sono riempite di debiti con i fornitori e con il personale che lì dentro ci lavora senza tregua.
Una situazione tanto paradossale, quanto odiosa che dà la misura di quanta insensibilità alberghi nelle coscienze di uomini e donne di governo e di funzionari dell’apparato statale, nei confronti delle popolazioni colpite, più di sei mesi fa, da questa catastrofe naturale. Ciò a dispetto delle belle e affettuose parole che – viceversa – pronunciano a favore di telecamera per qualche titolo di telegiornale.
Eppure quelle tre donne (una giovane madre con le sue due giovanissime figlie) avrebbero dovuto essere il simbolo dell’Appennino che resiste. Della solerzia e della laboriosità dei marchigiani. In special modo dei montanari. Tre Marte che nella loro casetta di legno si rimboccano le maniche, anche se per chilometri nel panorama circostante tutto è distrutto, affinché i vigili del fuoco, accorsi da tutta Italia, possano consumare un pasto caldo. Una madre e due figlie che, a testa alta, si mettono ai fornelli e affrontano con straordinaria dignità le paure, le difficoltà, le solitudini e le ansie quotidiane di chi attorno vede solo macerie. Senza inutili slogan, ma con la necessaria determinazione di chi vorrebbe voltare subito pagina. Senza piangersi addosso, perché sennò la pasta si scuoce. Con i propri mezzi e le proprie capacità. Senza attendere aiuti o provvidenze, perché di là in cucina, c’è da badare allo spezzatino. Donne pratiche, di azione. Come i vigili del fuoco che in quel ristorante hanno trovato un approdo caldo e sicuro dopo aver convissuto, nelle lunghissime e fredde giornate d’inverno, con il dolore degli uomini e la distruzione delle cose. Meriterebbero un monumento per il loro valore, ma nessuno se le fila. Non una ministra, né un’assessora. Nessuna presidente di nessuna commissione, nemmeno alle varie ed eventuali, si è premurata di andare lì e stringere loro le mani. Dimenticate dalle sacerdotesse delle pari opportunità. Sconosciute alle vestali della A finale che ormai appaiono troppo prese dalle loro borse di Hermes. Forse una visita in cucina, con l’odore forte di soffritto, avrebbe irrimediabilmente rovinato la fragranza delle due immancabili gocce di Chanel che lasciano in scia, sulle vistose scollature, appena velate da preziosi foulard di seta. Un oblio colpevole che piano piano le ha fiaccate. Per mesi queste tre concittadine hanno chiesto invano quanto legittimamente spettava loro. Talvolta hanno pure ricevuto risposte sprezzanti da funzionari pubblici che però ogni 27 del mese ritiravano regolarmente i loro stipendi con i relativi premi e indennità. Infine il grido di dolore. Rotto e disperato. Un’implorazione che fa vacillare per un’istante pure l’incrollabile dignità di queste donne. Fa loro abbassare il capo per supplicare il dovuto. Quello che nemmeno i tanti terremoti sono riusciti a realizzare lo ha fatto lo Stato. Ha mortificato, umiliandole, la dignità di queste sue tre figlie che meritavano altri più nobili riconoscimenti. Non ci sono parole per commentare oltre questa vicenda. Quando uno Stato mette davanti alla onorabilità dei propri figli i cavilli e gli apparati burocratici, vuol dire che ha perso completamente il senso della sua esistenza.
A noi non resta che prenderne atto con amarezza: da oggi lo Stato, come la speranza non abita più qui…
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