di Maurizio Verdenelli
Oggi sono 39 anni. Quasi un quarantennio dalla tragedia che tornò a dividere l’Italia (come si voleva): l’assassinio di Aldo Moro. “Non c’è più nulla da scoprire sul caso” ha tagliato corto il generale Mario Mori, il mese scorso rispondendo a chi scrive nel corso di un’intervista pubblica a Civitanova Alta (sala conferenze Caffè del Teatro). Mori, cofondatore dei Ros, già direttore del Sisde, allora colonnello venne nominato comandante del nucleo anticrimine a Roma proprio nel giorno dell’agguato di via Fani. Ed è dunque persona informata dei fatti, profondamente. In precedenza, un anno fa, gli avevo chiesto: “Io, come cronista, ero al Lago della Duchessa dove si diceva fosse stato gettato il corpo di Moro, lei dov’era? Non la ricordo sul posto…”. “Certamente non ero lì: era chiaro che si trattava di un depistaggio” è stata la risposta.
Foto di repertorio. L’abbraccio del Papa con il professor Giuseppe Giunchi, Sindaco di Serravalle per 16 anni che fu il medico curante del Santo Padre quando subì l’attentato
Ricordare Moro da Macerata, Marche non è solo un esercizio retorico. Questa è terra con profonde tracce di quel pezzo di storia che avrebbe cambiato, in peggio, il Paese. Serravalle di Chienti, ad esempio, venne definita per qualche giorno, con inquietudine, ‘la Gradoli marchigiana’. Che era successo? Che nello stesso poggio della frazione di Dignano, sull’altopiano di Colfiorito, fossero a poca distanza l’una dall’altra le ville di due protagoniste di quel periodo. Uno, già famoso, il professor Giuseppe Giunchi, recanatese, medico di fama mondiale, lo scienziato che aveva papi, capi di Stato, statisti, uomini famosi, e per anni sindaco di Serravalle, cui lo legava l’origine della diletta moglie. Giunchi era anche il medico personale di Aldo Moro, con cui aveva un rapporto quasi fraterno.
Serravalle di Chienti – Visita dell’onorevole Aldo Moro. Da sinistra Danilo Carnevali, il maresciallo di scorta di Aldo Moro Oreste Leonardi, uccisio in Via Fani, la signora Giunchi, Aldo Moro, Giuseppe Giunchi, Alfredo Cro
C’è una foto in bianco e nero che ritrae Moro, Giunchi e il capo della scorta il maresciallo Oreste Leonardi (trucidato in via Fani; tra gli uomini il poliziotto Domenico Ricci di Staffolo) in piazza a Serravalle. Lo statista aveva inaugurato il monumento ai Caduti della Resistenza. Di fronte alla villa del luminare, quella di Filippo Bartoli morto nel natale del 2013 a 77 anni.
Sua la Renault rossa in cui quasi 40 anni fa è stato trovato il cadavere di Aldo Moro che nuove piste dicono essere stato ucciso in uno dei tanti covi delle Brigate Rosse. Un’esecuzione a sangue freddo, smontando la tesi univoca di una fine ‘pietosa’ con le pallottole esplose a sorpresa sul corpo del ‘prigioniero’ nascosto da una coperta e quindi inconsapevole della fine vicina.
La R4, che sarebbe diventata l’auto più fotografata del mondo, è ora nel museo della Polizia di Stato. Bartoli fu a lungo nel ‘mirino’ degli investigatori: l’auto gli era stata rubata a Roma dove viveva e lavorava e con il rapimento naturalmente non c’entrava nulla. Quando i poliziotti lo fermarono mentre a passeggio con la moglie, chiedendogli di seguirlo alla ‘Centrale’, lui con bonomia tutta marchigiana rispose sorridendo: “Dove? Alla centrale del Latte?”. Al Quartier generale della PS, Bartoli ci rimase una giornata intera e a lungo fu richiesta la sua presenza per testimoniane ulteriori, confronti, riconoscimenti. Raccontò una volta: “Temevo sempre d’essere di rimanere impigliato nell’errore, in un falso riconoscimento fatto magari dai brigatisti a bella posta, per sviare le indagini. E una volta a Rebibbia pensai che fosse giunto quel brutto momento. Alle mie spalle sentii quello che avevo temuto a lungo, chiamarmi cioè con il mio nome: ‘Bartoli?’. Mi girai, tremando, semisvenuto. Mi riebbi solo quando riconobbi chi mi aveva chiamato: era uno dei cuochi del carcere che mi aveva riconosciuto, sì, ma come suo vecchio compagno d’armi, alla leva militare”.
Nel caso Mori, c’è poi prepotentemente il toponimo Gradoli. La cittadina o la via che emerse da una seduta spiritica a Bologna nella quale si è sempre asserita la presenza con quella di Romano Prodi ed altri ‘nomi’, anche quella del professor Mario Baldassarri, maceratese, economista di livello internazionale, già viceministro dell’Economia, senatore e ‘padre’ della soc. ‘Quadrilatero’ realizzatrice della superstrada Civitanova-Foligno. E sul piano dell’esoterismo, l’episodio che portò gli investigatori a Civitanova a bussare alla porta di Pasqualina Pezzolla, la famosa veggente scomparsa qualche tempo fa. Pasqualina, si racconta (pure nel libro a lei dedicato) mise cortesemente alla porta tutti con queste parole: “So dare una risposta a quello che mi chiedete: dov’è tenuto prigioniero, cioè Aldo Moro. Conosco il luogo della sua prigione ma questi poteri il Signore me li ha dati solo per guarire, non per altro”. Un’altra domanda, un mese fa, ho posto a Civitanova, al generale Mori: “E’ vero che l’unità di crisi fosse ad un certo punto penetrati da agenti stranieri che imposero la linea di non cercare più Moro e lasciarlo così al proprio destino?”. “Non è affatto così: gli agenti stranieri, anche di Paesi potenti, non hanno avuto mai la forza né l’autorità per certe operazioni” la risposta dell’ex direttore del Sisde.
Infine due ricordi. Dirigendo la redazione di Chieti de ‘Il Messaggero’ ebbi modo d’incontrare il maresciallo Leonardi qualche giorno prima di via Fani. Era il giorno del giuramento degli allievi carabinieri, nella caserma di Chieti Scalo allora comandata dal col. Polidori (da me conosciuto a Perugia). Lo avvicinai, il fotografo del giornale Rocco Schiazza lo fotografò (fu l’ultima immagine pubblica del sottoufficiale): ma lui non volle rispondere ad alcuna domanda. Era un giorno di festa, i genitori degli allievi – e Leonardi aveva il figlio tra questi- errano dietro le transenne e facevano festa. Solo lui, nello sguardo, appariva tristissimo quasi presago della fine imminente. Ricordo un altro scatto: il giovane Leonardi che lasciava il 16 marzo 1978 la caserma abruzzese con un permesso speciale e doloroso: l’uccisione del padre ad opera delle Brigate Rosse.
Il secondo ricordo è riferito ad Ismeno Fabbri, l’ex brigadiere dei Carabinieri, per 30 anni assistente di due presidenti del Senato, deceduto a fine febbraio corso ad 89 anni a Roma dove abitava. I funerali sono stati celebrati a Colfiorito (Foligno), il paese della moglie dove la famiglia passava da sempre in una casa di campagna nel territorio di Serravalle. Nell’unica intervista concessa ad un giornalista (chi scrive) aveva ricordato (leggi l’articolo) come le Brigate Rosse avessero nel mirino Amintore Fanfani. In quel caso però era scattato l’allarme preventivo e il presidente del Senato, superprotetto, si era salvato dal rapimento. Era allora toccato ad Aldo Moro.
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Maurizio, all’elenco dei collegamenti maceratesi con il caso Moro vorrei aggiungere il covo delle Brigate Rosse che all’incirca in quell’epoca (o forse poco prima) venne rinvenuto, ormai “freddo”, nell’Hotel House di Porto Recanati.
se sul caso Moro non c’è nient’altro da scoprire la Commissione Parlamentare d’Inchiesta starà solo perdendo tempo? Nelle Conclusioni (pag. 161) parla di inspiegabili omissioni d’indagine e tanta altra roba ancora da scoprire.
http://www.camera.it/leg17/491?idLegislatura=17&categoria=023&tipologiaDoc=documento&numero=023&doc=intero#14
forse vorranno capire come mai un ex agente dei servizi americani nel corso di un intervista ad un giornalista francese abbia confessato di averlo ucciso.
https://www.ibs.it/abbiamo-ucciso-aldo-moro-dopo-libro-emmanuel-amara/e/9788873941057#