La presentazione del libro “La pittura sacra del Tibet”, tradotto dal manoscritto inglese di Giuseppe Tucci
di Federica Nardi
La traduzione di un testo perduto di Giuseppe Tucci. Ha i caratteri dell’avventura la nuova pubblicazione dell’editore Il cerchio, “La pittura sacra del Tibet”, traduzione italiana dei “Tibetan painted scrolls”. 680 pagine per due volumi e due dvd con più di mille pagine di documentazioni, testi e illustrazioni fino a questo momento inediti, tutti del maceratese che la città lotta per non dimenticare. Poche centinaia di copie, con un costo proibitivo. Ma l’intento è chiaro, quello di iniziare un percorso che, partendo da Macerata, punti alla riscoperta del più grande orientalista del XX secolo. Ad annunciarlo il vicesindaco di Macerata Stefania Monteverde: «Stiamo creando un nuovo gruppo di lavoro per continuare la riscoperta dell’opera di Giuseppe Tucci, invitiamo chiunque voglia a unirsi». L’ex assessore regionale Pietro Marcolini: «C’è l’interesse del Consiglio regionale a ripetere l’operazione culturale e politica già messa in campo per la figura di Matteo Ricci». Con loro anche Luigi Lacchè, rettore dell’università di Macerata, amareggiato da «un Paese che non vuole dare all’opera di Tucci la giusta sistemazione».
Da sinistra: Cesare Catà, Adolfo Morganti e Pietro Marcolini
Tucci: l’orientalista (fu direttore fino al 1978 dell’Isiao, l’istituto italiano per il medio e estremo oriente che, dopo lo smantellamento, è ora a rischio di dispersione – leggi l’articolo), l’esploratore instancabile, l’uomo nervoso e il fine osservatore. «Uno dei grandi geni del Novecento – lo definisce Adolfo Morganti, direttore dell’associazione “Identità europea” -, l’ultimo testimone di una tradizione marchigiana di esploratori. Pubblicare questo libro è stata una grande avventura dello spirito per tutti noi. La tecnologia ci è venuta in soccorso: nei dvd troverete le illustrazioni originali in formato grande, che sarebbero state impossibili da rendere su carta stampata». «Qui a Macerata abbiamo un archivio fotografico unico, concesso dalla vedova di Tucci Francesca Bonardi – racconta Maurizio Serafini di “Arte nomade”, che da più di dieci anni si impegna per la riscoperta dell’opera dell’orientalista -. Sono tanti i ragazzi marchigiani in Tibet, tutti nel segno di Tucci. Non vorrei che fosse relegato nel passato. Nella biblioteca di Katmandu mezza vetrina è dedicata alle sue opere». A raccontare i mesi di traduzione Cesare Catà, che definisce l’operazione «un canto orfico, il recupero di ciò che era nascosto nel testo». Il testo originale italiano è andato perduto. La traduzione è stata fatta dal manoscritto inglese, ma «un inglese scolastico – spiega Catà -, modellato sul raffinato italiano di Tucci. Con quest’opera siamo di fronte a un lavoro antropologico nel senso più profondo del termine. Tucci guarda l’arte tibetana e riesce a raccontarci un popolo. È paragonabile a quello che fecero Vasari e Ruskin». Un luogo, il Tibet, che «esiste senza esistere – prosegue Catà -. La pubblicazione di questo lavoro di Tucci è un vero e proprio atto di resistenza contro il rischio di perdere per sempre la cultura tibetana. Questo libro è una traccia meravigliosa e inestimabile, testimonianza che l’essere umano è qualcosa di più del suo passaggio sulla terra».
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