di Donatella Donati
A giorni alterni con una frequenza quasi regolare televisione e radio annunciano un femminicidio. La relazione dell’episodio è sempre più scarna e abbreviata, poche parole per indicare chi è stato l’arma che ha usato e il risultato ottenuto. Un tempo almeno ci si fermava un po’ di più sul contorno, sulla descrizione del fatto, oggi bastano poche frasi secche e crudeli per segnalare che un’altra donna non c’è più e che un altro uomo l’ha uccisa. Non ci si chiede più neanche di fare un minimo di analisi sulla situazione che si è verificata, tutto è affidato alla forza pubblica e al medico legale. La banalizzazione di eventi così drammatici e così significativi di una cultura della crudeltà e dell’odio dovrebbe invece essere il punto di partenza per una riflessione che gli uomini dovrebbero fare, quelli, e spero che siano tanti, che non userebbero mai violenza contro chicchessia e tanto meno contro una loro compagna. Se si muovesse un’ondata di deprecazione da parte maschile per colpire quelli del loro genere che agiscono con tanta violenza e inciviltà, forse diminuirebbero i feroci delitti contro le donne. Ma gli assassini sono in qualche modo convinti che dalla loro parte per giustificarli e capirli c’è una sottile connivenza dei loro simili.
Il 4 maggio alle 18 Matilde D’Errico sceneggiatrice di amore criminale e del conseguente libro che ha scritto affronterà questo tema nel cortile della Facoltà di Lettere di via Garibaldi insieme con gli studenti dell’Università di Macerata e l’attore Rodolfo Craia che recita in uno dei format. Sarà presente anche una persona dolcissima già comparsa in uno degli episodi e testimone della violenza del suo compagno e in qualche modo dell’omertà degli amici di lui. Si tratta di Francesca Baleani che alcuni anni fa fu assalita dal marito presentatosi in casa arbitrariamente perché già divorziato che la strozzò, la pestò e la chiuse in un sacco che andò a depositare in zona periferica in un cassonetto. Fu salva per miracolo perché moribonda mandò un flebile lamento che un giovane passante ascoltò e riconobbe umano.
Le conseguenze fisiche e psicologiche sono state devastanti ma il colpevole accompagnato dalla pietà di amici e difensori quanto prima esaurirà la sua pena e il terrore di una ripetizione dell’incredibile atto resta vivo perché statisticamente è rilevata e denunciata. Il cortile dove si svolgerà la presentazione del libro della D’Errico fa parte dell’antico tribunale di Macerata dove si svolgevano i processi di appello della Marca di Ancona. Nell’aula che oggi è sede della Biblioteca statale fu discusso nel 1818 un processo molto importante contro un medico di Pesaro, Angelo Lorenzini, che aveva ucciso durante l’esecuzione di un aborto una giovane donna che aveva violentato lui stesso. A Pesaro era già stato condannato soprattutto per la legge papale che vietava rigorosamente gli aborti. In più il Lorenzini dopo la morte della ragazza l’aveva di corsa fatta seppellire nel cimitero dietro la cattedrale di Pesaro con la diagnosi di febbre infiammatoria. Ma la cameriera che aveva vuotato tre bacinelle di sangue e aveva sentito dietro la porta chiusa della camera da letto urlare la ragazza e invocare pietà fece subito la denuncia e il medico fu processato. Durante l’appello la situazione fu capovolta come è successo spesso in processi in cui compaiono testimonianze femminili: la cameriera fu accusata di essere stata pagata per una falsa testimonianza, alcuni signori pesaresi testimoniarono sulla professionalità del Lorenzini che addirittura visitava le loro mogli senza toccarle, attraverso le indicazioni che dava ai mariti. L’ avvocato Romiti di Macerata fece una arringa di difesa di cui resta traccia nell’ Archivio di Stato della nostra città e Lorenzini fu assolto. Ma di questa giovane donna uccisa resta una traccia formidabile nella canzone scritta da Leopardi in suo onore il cui titolo è la sintesi della storia ” nello strazio di una giovane fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo” . Leopardi, giovanissimo aveva avuto notizia attraverso la Voce di Pesaro di questo evento e ne era rimasto tanto colpito e addolorato da scriverne subito dopo, prima una riflessione (del tipo di quella che ci aspetteremmo dagli uomini di oggi) e poi una canzone nella quale emerge con grande evidenza la tortura a cui il chirurgo la sottopose, l’insopportabile dolore fisico dell’operazione e l’ingiusta condanna a cui poi l’opinione pubblica la sottopose. Una canzone così nuova nel suo contenuto e nella sua forma che meritava di essere pubblicata e Giacomo la inviò subito a Bologna al Brighenti perché lo facesse. Brighenti intuì il carattere rivoluzionario di quella canzone e la inviò a Monaldo per chiedergli l’autorizzazione. Monaldo fece una scenata drammatica a Giacomo accusandolo di oscenità, di complicità con le peggiori idee sui delitti, di disonore della famiglia e ne bloccò la pubblicazione. Rimase tra le cose più segrete di Giacomo affidate a Ranieri e per anni conservate in una cesta insieme allo Zibaldone. Non fu pubblicata che recentemente tra le opere varie, censurata anche dal perbenismo della critica e dalla volontà di non far conoscere un altro Leopardi, quello assai diverso dai barbosi accademici e dal conformismo cattedratico, un Leopardi sempre giovane, sempre brillante e sempre al di sopra delle regole meschine.
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Donatella Donati unendo denuncia civile, analisi di costume e critica letteraria ci ricorda la storia straziante di Virginia cui Leopardi dedico’ quella canzone censurata e dimenticata e sulla quale la stessa Donati ha scritto un atto unico qualche anno fa.
sì però Leopardi non è sempre rimasto minorenne ed è straziante l’idea che questa sua canzone giovanile così transferita così trasumanata nel dramma della donna stuprata sia stata in seguito censurata da lui stesso sia per un’ovvia coatta riservatezza sia per progressiva coatta misoginia…
Ha fatto bene Leopardi a eliminare questa “poesia” perché in effetti è proprio… uno strazio!