di Maurizio Verdenelli
Ricordo soltanto tre cose: l’anno no, il decennio quello sì. Ricordo pertanto che non erano stati ancora ‘inventati’ i cellulari, che Carlo Verdone – atteso venerdì 27 da Paolo Marinozzi a Montecosaro – era appena tornato a Roma da una vacanza in Estremo Oriente. Ed infine che il suo ‘fisso’ di casa m’era stato fornito da un comune amico e mio collega di lavoro, Alfonso Marchese, corrispondente allora de ‘Il Messaggero’ da Spoleto (Alfonso scrisse poi nel ’96 un bellissimo reportage dall’Alto Maceratese che in una notte del settembre di quell’anno doveva essere squassato da un terribile terremoto secondo la predizione onirica di un signore, denunciato e poi prosciolto nel ’97 post sisma…). Eravamo dunque che eravamo all’incirca nel mezzo di quelli che vennero a torto definiti gli anni dell’imbecillità (non conoscendo il futuro dietro l’angolo) con superbo distinguo allora dall’impegno tardosessantottino, quando mi telefonò in redazione il cavalier Luigi ‘Gigio’ Flamini.
Che mi onorava della propria amicizia. Flamini, cui Recanati ha dedicato giustamente una via, era stato sindaco più volte negli anni 50, poi vicepresidente della Provincia, maestro di scuola e ciclista fino ad ottant’anni, presidente dell’associazione provinciale combattenti e reduci (a lui spettava il comizio a Macerata ad ogni anniversario). Era stato inoltre e soprattutto amico personale di Beniamino Gigli cui aveva dedicato più libri e il grande tenore aveva voluto essere il padrino dell’ultimogenito Carlo del sindaco, il quale deceduto a Roma il tenore aveva quasi imposto funerale e sepoltura a Recanati “come mi aveva fatto promettere lui stesso sul letto di morte”. L’ex sindaco aveva un’altra grande icona nel cuore: Giacomo Leopardi. “Io sono come intossicato dalle immense figure di Beniamino e Giacomo” indicando la sua passione da autentico recanatese. Flamini, democristiano convinto era stato però costretto per logiche di partito (Franco e Ferdinando Foschi ne erano allora le ‘stelle polari’) ad uscirne e a costituire una lista civica (con il simbolo del leone e del gladio) rientrando così eletto insieme con il dottor Sergio Beccacece, in consiglio comunale. “Non è possibile! Non è possibile!” la voce al telefono era indignata, quasi roca. “Cosa, cavaliere?!”. ‘Hai visto Verdone in prima serata sul primo canale?”. Si l’avevo visto. “E cosa ne pensi del suo personaggio perbenista che, in vestaglia di seta e papalina, insinua quelle cose tremende sul nostro Giacomo?!”. ‘Quali cose, cavaliere?”. “Che Leopardi e Ranieri a Napoli, insomma, ci siamo capiti no?”. Già, già, ma come si fa? “Basta, adesso faccio una mozione perché il consiglio comunale s’impegni a denunciare per diffamazione Verdone riguardo all’onorabilità violata del nostro Poeta”.
E così fece, anche se per il momento il caso si era risolto in un violentissimo j’accuse del capogruppo della Civica in ordine alla trasmissione tv con Verdone, allora quasi esordiente, protagonista. Tuttavia Recanati fremeva: la ‘macchia’ sul Poeta doveva essere in qualche modo lavata. Intendiamoci, l’azione penale appariva subito ardita, ma la notizia c’era tutta. E al telefono, da Roma, nella sua casa, Carlo Verdone mi diede l’impressione di finire per un momento nel panico. Tanto che volle giustificare, concitatamente. l’interpretazione data. “Ma scusa – disse- il mio perbenista non ha fatto altro che cadere dalle nuvole, irritandosi, stupendosi amaramente perché si gettava un atroce spettare sulla natura dei rapporti tra Giacomo ed Antonio in base alla loro corrispondenza privata”. Lettere, mi rivelò l’attore, che lui aveva ‘studiato’ proprio in quei giorni, dalla terza pagina del Messaggero. In quel momento era nata la gag televisiva. “E se c’è qualcuno da querelare è proprio il tuo giornale” concluse Verdone. Raccomandando tuttavia perché mi facessi partecipe di una transazione pubblicando quella intervista ‘a difesa’.
Che apparve a tutta pagina sulla cronaca maceratese del ‘Messaggero’, a corredo l’immagine del consiglio comunale ‘schierato’. Flamini si mostrò soddisfatto e pure il sindaco, Rolando Garbuglia (bibliotecario all’Unimc) che da parte sua non aveva mai forse pensato, in cuor suo, ad una querela a carico dell’attore. E neppure il conte Vanni Leopardi credo ci abbia mai pensato quando pure protestò per quei ‘sospetti’ che periodicamente rispuntavano sulla stampa preferibilmente d’estate. ‘Sospetti’ che nascevano dalla scarsa storicistica interpretazione di di un linguaggio settecentesco ormai lontano mille anni luce dal nostro, corrotto per di più da sms e mail. “Mi ritenni tuttavia soddisfatto – mi rivelò Vanni- quando Umberto Eco nella sua ‘cartina di Minerva’ sull’ Espresso mi ha esortato a pensare, in ogni caso, ai Grandi Italiani in relazione a ciò che scrivevano e non alla loro vita privata spiata dal buco della serratura”. E Carlo Verdone? Tirò, così mi sembrò al telefono, un sospiro di sollievo quando lo assicurai che nessuna querela gli sarebbe arrivata dal Colle dell’Infinito. Che a fine mese da Montecosaro (secondo ospite d’onore dopo Claudia Cardinale del Museo a pennello) ripenserà forse a quella vicenda legata al ‘Giovane Favoloso’ al tempo di ‘Bianco, rosso e Verdone’ del cui cast il perbenista faceva parte.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
Mi pare di ricordare quella gag si. Comunque non vorrei dire un’eresia ma la figura femminile nell’immagine tratta da “Il Giovane favoloso” credo sia Fanny Targioni Tozzetti
Quando nel 1832-33 Ranieri tornò a Napoli dalla famiglia, che versava in dissesti finanziari sempre più gravi, Leopardi gli scrisse da Firenze frequenti lettere d’amore. In esse leggiamo dichiarazioni come questa:
“Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell’amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d’ogni cosa al tuo ben essere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo, che noi viviamo l’uno per l’altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo” [5].
Un'”amicizia” così “accesa” non passò inosservata, come emerge da un’altra lettera che accenna alle “derisioni” che scatenava:
“Povero Ranieri mio! Se gli uomini ti deridono per mia cagione, mi consola almeno che certamente deridono per tua cagione anche me, che sempre a tuo riguardo mi sono mostrato e mostrerò più che bambino. Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto ad ammirare; e biasima sempre, come la volpe, quelle che invidia.
Oh Ranieri mio! Quando ti ricupererò? Finché non avrò ottenuto questo immenso bene, starò tremando che la cosa non possa esser vera. Addio, anima mia, con tutte le forze del mio spirito. Addio infinite volte. Non ti stancare di amarmi” [6].
E ancora:
“Ranieri mio, non hai bisogno ch’io ti dica che dovunque e in qualunque modo tu vorrai, io sarò teco [con te]. Considera bene e freddamente le tue proprie convenienze (…) e poi risolviti. La mia risoluzione è presa già da gran tempo: quella di non dividermi mai più da te. Addio” [7].
E quando infine Ranieri parte alla volta di Firenze per andare a prendere l’amico, al quale ha proposto di vivere a Napoli insieme, Leopardi gli scrive:
“Ranieri mio. Ti troverà questa ancora a Napoli? Ti avviso ch’io non posso più vivere senza te, che mi ha preso un’impazienza morbosa di rivederti, e che mi par certo che se tu tardi anche un poco, io morrò di malinconia prima di averti avuto. Addio addio” [8].
Giacomo LeopardiDirò subito che leggendo queste e le altre lettere di solito si ricava l’impressione che fra i due esistesse una relazione. Si ha un bel ricordare che nell’Ottocento l’amicizia si esprimeva in termini molto più calorosi che ai giorni nostri. Ciò è vero, ma è altrettanto vero che qui si era comunque passato il segno anche delle convenzioni dell’amicizia Romantica, come dimostrano le considerazioni del Leopardi a proposito delle “derisioni” a cui andava incontro il loro “sodalizio”!
Anzi, per maggior chiarezza Ranieri si affannò a rivelarci da cosa nascessero “scandalo” e derisione: dall’eccessiva intimità fra i due. Appena arrivati a Napoli assieme, nel 1833:
“io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui” [9].
Tanta premura suscitò i sospetti della padrona di casa che
“Mi dichiarò: ch’io le aveva introdotto un tisico in casa; che, amandolo tanto da fargli le nottate, non altra poteva essere la cagione onde non gliele facessi in casa mia [non c’era ragione per non fargliele a casa mia]; ch’essa voleva, ad ogni costo, essere sciolta dall’affitto” [10].
Un incidente simile era già accaduto durante il già citato soggiorno comune a Roma nel 1831/32: un maligno parrucchiere compaesano di Leopardi, stupito della convivenza fra i due, s’era premurato di riferire certi pettegolezzi a Ranieri:
“”Io sono”, mi disse, “di Recanati. (…) Com’è ch’ella ha con sé il figliuolo del conte Monaldo?”.
Giacomo LeopardiPercosso dalla improvvisa ed inattesa interrogazione, io levai su il capo, e lo guardai! E scorgendogli una certa ciera maliziosa, n’ebbi un momento di stupore! Poscia, raccolto l’animo:
“Con me?…” risposi, con severità. “Non so che cosa vogliate intendere. Vuol dire, che siamo due amici ch’è s’è preso un quartiere [appartamento] insieme”.
Ignaro che s’era prossimi alla camera del mio amico, e però [perciò] non parlando basso quanto avrebbe dovuto, egli replicò, sorridendo:
“Ho detto così, perché conosco assai bene le cose di colà, gli umori del padre e del figliuolo; l’odio implacabile di costui al clima ed agli abitatori di quel paese…”.
E soggiunse, con importuna loquacità, ch’io repressi raddoppiando di severità, assai altri particolari, i quali o io conosceva assai meglio di lui, o non m’importava né punto né poco di conoscere” [11].
Appena uscito il pettegolo, piomba Leopardi e si sfoga:
“Sappi, ch’io divento un forsennato, al solo sognare di andarne per le bocche di quella gente [i recanatesi]; sappi, che io inventai, invento ed inventerò tutte le favole, tutti i romanzi di questa terra, per salvarmi da questa orribile sciagura!” [12].
(con buona pace delle “favole” e i “romanzi” su Silvia e compagnia bella). Ranieri gli riconferma la sua amicizia, però aggiunge velenoso:
“Ma, io confesso, che non avrei mai inteso concedergli quella che mi si riferisce leggersi in alcune delle sue lettere. E dico: mi si riferisce; perché, insino da una prima pubblicazione di questa specie, io, tre volte tentai di farne lettura, e tre fui preso dalla febbre” [13].
Eccoci allora al dunque: quali che fossero le convenzioni dell’amicizia dell’Ottocento, è Ranieri stesso a dirci che le lettere di Leopardi andavano oltre l’accettabile, al punto che la sola lettura gli procurava la febbre decenni dopo!
Ma allora i due stavano assieme o no? A giudicare dal fatto che Leopardi aveva bisogno di certe misteriose “passeggiate” e di certi incontri con sconosciuti proletari, non direi proprio che fra i due ci fosse, o ci fosse più, una relazione erotica:
“Mi parve di scorgere, prima in Roma, poscia [poi], assai più di frequente, qui, che altre ragioni gli destavano l’inesplicabile desiderio di andar fuori solo, e che queste fossero certe più libere confabulazioni con certa gente verso la quale, prima io da solo in Roma, poscia insieme con l’aureo Margàris, qui, non si era mancato di dire la mente [opinione] nostra.
Ma ciò era niente. (…).
Leopardi era tenerissimo, gelosissimo de’ suoi segreti (…). Noi, d’altra parte, s’era sdegnosissimi di saper novelle [notizie] de’ fatti altrui, e rispettosissimi della sua libertà. E non ci avanzò altro partito [non ci rimase altra scelta] se non, ad amendue, in generale, di astenerci da qualunque altro motto [commento] in proposito; ed a me, in particolare, di uscire costantemente dalla stanza quando qualche innominato sopravveniva” [14].