di Filippo Davoli
Se l’Aida firmata da Francesco Micheli è stata definita “moderna” (mentre invece è classica nell’accezione originaria del termine, e né antica né moderna, ma piegata interamente a servizio di libretto e partitura), la Tosca di Franco Ripa Di Meana – nel tentativo di valicare i tempi partendo dal Risorgimento per giungere alla nostra contemporaneità (la temporalità è affidata a una fettuccia di metro fissata alla sommità del muro di sfondo) – finisce per assumere connotati disorientanti e al limite del bozzetto.
Accennata da grandi pannelli dipinti come quinta, e limitata sull’enorme palcoscenico da oggetti di richiamo (banchi di chiesa, sedie e poltrone, etc.), capiamo subito che le fantasmagorie di Aidaqui non ci saranno, ma non importa: può andar bene anche così.
Tuttavia, in una rilettura che parte sobria e fedele come questa, viene da chiedersi che bisogno c’era, anziché affondandogli la lama nel cuore, di far morire Scarpia a colpi di pistola (pistola, oltretutto, che Tosca estrae dalla sua borsetta, e dunque – è dato intendere – si tratta di un omicidio premeditato, più che di un precipitare degli eventi, come invece tratteggiato da Illica e Giacosa e superbamente fissato dalle note del grande lucchese).
la scena col pannello inneggiante a Vittorio Emanuele II
Un’altra piccola ma sostanziale incongruenza, quella che dedica – nel pannello di sfondo del secondo atto – la scena a Vittorio Emanuele II (che non si capisce che ci stia a fare in uno Stato Pontificio impegnato a combattere Napoleone); quindi si piove inopinatamente, ingiustificatamente, nel Ventennio fascista del terzo atto: Cavaradossi viene giustiziato da milizie nere al soldo di un gerarca e a colpi di mitraglia.
Si ha – di questa incursione dal sapore (vagamente?) ideologico – l’impressione non felice di un’appiccicatura non necessaria, quando non addirittura pretestuosa. Fino allo sconcertante finale, in cui Tosca – invece di gettarsi nel vuoto – si allontana a piedi travolta, in senso contrario, da un’orda di turisti in bermuda e t-shirt, mentre cala di colpo l’ultimo pannello, raffigurante Castel Sant’Angelo e il fiume Tevere inquadrati dall’alto (probabilmente nell’intenzione di mostrarci il punto di vista di Tosca nel momento supremo del suicidio).
Ma questa Tosca si suicida o viene uccisa dalla massa? Assume l’ora più difficile della vita con un atto eroico, per quanto negativo, oppure sparisce nel bailamme banalizzante della contemporaneità? Troppi rimandi, troppi suggerimenti, troppi stimoli, troppe direzioni tutte insieme; col risultato di un accrocchio non in grado di chiarire il senso di una rilettura quale che sia, quanto piuttosto di tradire quello di una volontà di stupire a tutti i costi, in realtà in modo molto meno stupefacente di quanto sappia fare la ricchezza musicale e la caratura poetica del capolavoro pucciniano.
Per fortuna, supplisce all’ambientazione la bravura dei cantanti: attrice convincente e soprano formidabile Susanna Branchini-Tosca; in crescendo dall’inizio alla fine la performance di Luciano Ganci-Cavaradossi; corretto e preciso nell’intonazione, ma sinceramente poco Scarpia, il baritono Marco Vratogna. Rigorosa la direzione d’orchestra di Eun Sun Kim: a sottolineare, una volta di più, che quest’anno l’opera è donna.
Sempre imperdibile, infine, la cornice dell’Arena Sferisterio, spazio magico e acusticamente perfetto. Arricchito nel suo esterno, durante gli intervalli, dalle proiezioni sul frontespizio di effetti di luce, fotografie, disegni e colori in onore del 50° della Stagione lirica. Una splendida curiosità, ironica e delicata, che accentua la sensazione di momenti irripetibili.
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