di Filippo Davoli
Non si naviga il mondo solamente affacciati alle finestre. Vi sono fior di autori che hanno dedicato all’arte della passeggiata (perché si tratta di un’arte, e concordo) volumi, saggi, ambientazioni di romanzi e racconti, sillogi di poesia. Il tema del viaggio è la macrocategoria, se vogliamo; la passeggiata, l’escursione, ne è un’espressione, ma medesime possono essere le aperture: dello sguardo, ma anche dell’avventura, del “lasciarsi portare”, del dimenticare l’orologio e così via.
Non c’è solo la passeggiata in montagna, né quella sulla spiaggia al mare; la passeggiata può essere fatta anche con la macchina (nel nostro entroterra, il rito della passeggiata con la macchina era una priorità mattutina domenicale delle famiglie: andavano alla messa, poi a fare un giro con l’auto lucidata a festa, il vestito buono, qualche parente da raggiungere per un saluto o un pranzo casereccio). Se poi uno fosse affetto – come me – da randagismo cronico, potrebbe finire per ritrovarsi sperso nella campagna lodigiana con una nebbia fittissima, e decidere di fermarsi a dormire nei pressi dell’unico cartello esistente (un divieto di sorpasso! Ma che vuoi sorpassare, e soprattutto chi??).
Ma la passeggiata per antonomasia è quella che si fa a piedi, sperduti su una mulattiera non asfaltata in campagna; oppure di notte per le strade della città progressivamente sempre più deserta e silenziosa.
A Fermo è una delizia impareggiabile sperdersi nel dedalo dei vicoli dello sterminato centro storico: antiche pietre, archi secolari, pareti con gobbe e pendenze che fanno tremare, palazzi che spuntano come per miracolo e paiono altissimi, vertiginosi, imponenti. Alcuni passaggi mi riportano all’infanzia, quando coi cuginetti facevamo la festa ai ragnetti che si accasavano negli interstizi dei mattoni delle case; altri appaiono in maniera invece del tutto inedita, quasi che questa città dovesse non finire mai e riservasse sempre qualche nuova sorpresa. Poi l’approdo a piccoli slarghi, tra gatti randagi che vanno in amore e radi lumi ancora accesi (c’è qualche altro affetto da randagismo con cui affratellarsi a distanza, per una sorta di consanguineità del pensiero).
Il passaggio da Porto San Giorgio a Civitanova fa sovvenire Die Moldau (La Moldava) di Smetana: l’andamento del fiume debole, nella sorgente, crescente fino all’esplosione nella grande città e poi nuovamente leggero, man mano che si riperde tra le campagne. Anche sul nostro Adriatico, specie d’estate, si passa dalla sobria allegria familistica del lungomare sangiorgese all’infinito lungomare santelpidiense rimesso a nuovo e vivido di colori e luci mischiate al verde pieno degli alberi, fino alla chiassosa baraonda di Civitanova (di cui a volte c’è bisogno, per rompere le file); subito dopo, però, la passeggiata riprende il suo andamento lentissimo e buio. Bisognerà risalire in auto per arrivare a Porto Potenza Picena, squassata dalle mareggiate. Una ferita per il cuore della sua gente (che siamo anche noi). Ma questo è già un altro discorso.
A Macerata il godimento maggiore è quello di camminare guardando in alto: ogni volta si scopre un cornicione nuovo, un balcone insospettato, una teoria di gerani incontaminata, uno scorcio di nubi e cupole che fa impazzire, un’apertura improvvisa sul Conero o sulle valli tra i Sibillini e il mare. La grazia migliore la concedono le notti di luna piena, specialmente se il Comune decide di risparmiare sulla luce elettrica dei lampioni: lo scuro delle strade contrasta col biancore dei palazzi illuminati dalla luna; generalmente si alza una brezza fresca ma delicata; anche il silenzio ha confidenze segrete per i più attenti.
Se vi pungesse vaghezza di provare, sarà un piacere incontrarsi.
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