di Filippo Davoli
C’è una vita intera che passa, per quelle mani; sotto quelle mani; dentro quelle mani. Sì: le mani di Mike Melillo sono l’apparizione mirabile di un sentire non comune, lo specchio di una bravura sempre più affinata, sempre più affilata, logica e sapiente, acuminata e dissimulata alla perfezione nel tessuto magniloquente e colloquiale di un pianoforte a coda. Remebrance, per piano solo, è probabilmente il disco capolavoro del grande pianista americano (ma residente in Italia, a Macerata), che vanta collaborazioni coi più grandi interpreti e maestri – maestro anche lui, e di vaglia.
Dodici tracce che fanno il punto su una vita intera, e contemporaneamente rilanciano, riaprono i discorsi: dal sapiente uso del pedale, così felicemente liquido, riverberante, alla cristallinità pulitissima delle virate tematiche, delle sobillazioni confidenziali – un accenno appena, un passaggio, una sottolineatura, ma c’è già tutto un brano, tutta una storia che si delinea nelle sue infinite trame; che da esse, come per miracolo, si ricompone passando per quelle mani, sotto quelle mani, dentro quelle mani. E le versioni di Mike – sia pure nel frammento di un fraseggio – paiono (e risultano) definitive, ultimative.
Quasi una definizione di poetica, il brano che dà il titolo al cd e che ne apre l’esecuzione: oltre quattordici minuti di trasalimento e immediate successive ricompostezze (ma non illudiamoci: sta suonando Melillo, sa perfettamente dove vuole condurci. Semplicemente ci sta spiazzando sin da subito, ci sta preparando ad un abbandono complice, ci sta educando a lasciarci portare; del resto, come e perché resistergli?).
Ed è così che si scivola delicatamente, sopraffinamente, per melodie care al cuore come Would you like to take a walk (e la risposta all’invito del titolo è già nelle cose: certo che vogliamo farci questa passeggiata sonora con Mike!); o That old feeling, in punta di martelletto, accarezzata e giocata con brio e controllo superlativo; o Salt peanuts, artigliata con efficace e sobria, canonica ironia (solo un grande poteva regalarcela così); fino alla “sua” Smoke gets in your eyes, che chiude il disco e che, con nonchalance, sembra sigillare l’attimo in cui ogni incontro, ogni volto, ogni storia – mescidata al ricordo – si fa presente, e contemporaneamente dono a noi che l’ascoltiamo. Ma è già qualcosa d’altro, memoria divenuta memoriale, lampo e genio, grazia e talento. Quest’uomo ha le mani che cantano. Perdersele è una pazzia.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati