di Edoardo Salvioni
Sfogliando gli Scritti critici e gli Scritti sull’arte di Remo Pagnanelli, poeta e critico maceratese, si è colti subito come da una breve ma intensa folata, come da un sovrapporsi stratificato e denso. Sono volti ed idee che passano nella trama invisibile del pensiero. Si potrebbe dire, citando un suo verso, in quel punto entra il vento. Come se entrasse il respiro del vero pensare. Si pone agli occhi un lavorio incessante e poderoso. Un lavoro fatto di spazi e segni che si muovono in una geometria composita ma mai priva di linearità. Una costruzione limpida, come di molteplici piani, rifrangenze di diamante. Una complessa struttura di natura, ma mai gratuitamente complicata. Allo stesso tempo, l’incedere della lettura non cede mai, né dispersivo né elusivo, ma come preso da una sintesi ed eleganza di un gesto fermo, di una tenuta che sa coinvolgere. Brevi saggi che stupiscono per quanto riescono a concentrare nello spazio tanto apparentemente innocuo quanto poi abissale della pagina. Tangibile è la presa d’attenzione che l’occhio ne trae, come ci si trovasse in un operoso teatro della mente, in cui la tenuta di scena è inesauribile.
Ancora più preciso sarebbe forse il termine bottega (senza nostalgie rinascimentali a dirsi, ma per tributare il senso di un continuo lavoro). Termine atto ad indicare la precisione dei passaggi, la meticolosa metodica sequenziale che animano ognuno di questi bravi saggi di intensità. La bottega di un ottico in cui le lenti che dispongono lo sguardo alla vista sono di finissima elaborazione e l’occhio ne trae nuove visione, innumerevoli forme. Lo stesso autore accenna alle metodologie come a delle lenti. L’atto di lettura e disamina passa poi all’osservatore, o lo spettatore, nel senso datogli dal filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, come colui che “guarda, ma ciò che vuole vedere è la vita come scorre davanti a lui”. Trarre la vita nel saggiare la vista nei meandri del pensiero, dalla marginalità microscopica della personale esperienza alla centralità macroscopica della storia e dei suoi istituti.
Il primo saggio contenuto negli Scritti sull’arte mette immediatamente in chiaro l’intenzione e la precisione definitoria in cui si e ci muove l’autore. Rende il senso compiuto di questo operare, facente fronte a numerosi fonti a cui attingere.
In Ipotesi (ipostasi) per una definizione di visionarietà si tenta un’analisi del concetto di visione e delle sue leggi nella storia della cultura. Un particolare riguardo è dato alle arti, con un’attenzione, per il fare poetico propriamente inteso, considerandolo come a suo modo contiguo. La visione viene intesa come atto del vedere, dell’osservare, verificare, certificare, secondo una doppia dinamica che la regola. La prima è la propria facoltà percettiva e cognitiva, “le genetiche e psicologiche attitudini nella percezione delle immagini”. La seconda è la serie storica, ovvero i condizionamenti sociopolitici che la collettività assume e che il singolo subisce. Un’analisi che del concetto di visione già dal suo prendere voce si presta come plurima, poiché per sua natura sfuggente ed ambigua.
Il critico Pagnanelli dunque tenta di dare definizione di uno statuto non tanto definitivo, quanto possibilmente euristico, aperto ad una continua verifica, della visione. La riflessione muove tra varie discipline: l’antropologia, la psicoanalisi, la semiotica la critica d’arte, la storia dell’arte e lo studio della mitologia. Il poeta e critico maceratese, andando ad elaborare il senso della visione nella varie discipline, giunge, come già il titolo preparava, a contemplarne la parte spesso relegata marginalmente, la visionarietà. Essa viene definita come “una particolare sezione della percezione ottica, soggetta ad uno stato di supercoscienza”.
Una facoltà, con un suo statuto problematico quanto fecondo. Come l’autore afferma, essa si pone come “uno scarto delle norme della visione (siano esse fisiche o culturali), un deragliamento delle funzioni che contribuiscono all’atto percettivo”. Ma la visione fa sempre fronte a questa sua parte ulteriore, avendone di conseguenza “ l’incognita dell’illusione e dell’inganno, della fascinazione e della meraviglia”. La visionarietà, viene poi investigata nei meandri della storia, sia delle arti, come della vita culturale degli uomini, fino alla dimostrazione che tutta la storia umana ha sempre tenuto conto di questa facoltà, che spesso pare esclusivamente e pigramente relegata ad atti di follia nella psicologia, o di misticismo nella religione.
L’autore cita le pitture rupestri di Altamira, la mitologia greca come due esempi antichi e pregnanti. Giunge ad una ipotesi suffragabile e riscontrata, che la mitologia in generale abbia convissuto naturalmente con la visionarietà, se la vita stessa degli antichi fu pullulante di figure oltre la visione. Con ciò si critica la mitologia tipicamente moderna secondo cui l’arte greca antica non si fondi solo ed esclusivamente sulla canonicità delle forme e dei rapporti strutturali omogenei. Questa conclusione si ritrova sulla scia di una corrente di pensiero assai feconda per quanto di esigui ma importanti rappresentanti quali Jacob Burckhardt, Friedrich Nietzsche, Aby Warburg ed Eric Dodds.
Vengono inoltre messi in rapporto alcune esempi nella storia dell’arte di tensione visionaria, di stupefazione, come Arcimboldi, Bosch, la
finta prospettiva del Bramante nella chiesa di San Satiro a Milano, la pittura ordinata e classica ma animata da un afflato similarmente al di là della visione, di Giorgio de Chirico. Noto è inoltre l’interesse per l’autore, in altri saggi, per pittori come Mafai e Scipione, nei saggi Scipione e la scuola romana, Comunicava anche con la poesia. Essi sono pittori dotati di un controllo dell’ordine figurativo, per quanto ascrivibili a pieno diritto nel novero della pittura europea d’avanguardia, vicini alla corrente espressionista di quegli anni, che nello specifico italiano porta il nome di scuola romana. Nello specifico, l’autore riscontra in entrambi una spinta ad un guardare dall’ordine al di là dell’ordine, pur mantenendo una sorta di realismo di fondo, un controllo della sanità dell’immagine nell’incombere della malattia o della delusione della storia.
L’Ordine, nella visione di Pagnanelli, rimane sempre come forma specifica, anche nei momenti di maggiore caoticità strutturale, affermando che anche il caos è una tipologia particolare di forma. Dunque, la visionarietà si pone per Pagnanelli come una modalità specifica del fare artistico. Inoltre, si presentano “enormi potenzialità” nell’interagire, nelle riscontranze tra arte figurativa, nello specifico la pittura, ma non solo, e la poesia. Esse interagiscono in “sollecitazioni reciproche, in una “reiterata prassi dello scambio”, per quanto i loro tratti specifici non rimangano complementari. Gli esempi storici posti a dimostrazioni sono molteplici: Petrarca e la sua idea di un corrispettivo pittorico dei versi, Mantegna ed il rimando ai libri nella sua pittura, le rappresentazioni pittoriche delle Metamorfosi di Ovidio, i carmina figurata (poesie il cui aspetto grafico ricorda degli oggetti).
Nei due saggi in cui vengono esposte le tesi, Pittura e poesia: invasioni di campo, La poesia verso l’immagine: note per un supergenere nell’arte, in un discorso in cui si analizza anche la specificità del cinema in relazione alle precedenti arti, si giunge inoltre a tentare un giudizio a caldo degli ultimi due decenni del Novecento. Esso viene inteso come un tempo storico ed artistico in cui la “transcodificazione” ( il reciproco superare le regole e barriere di una tecnica artistica specifica), il gioco a volte schiettamente ludico e demistificatorio delle barriere infrante, assurge quasi “a spirito stilistico dell’epoca”.
Siamo ben lontani dall’accettazione della temperie post-moderna di quegli anni, per quanto la diagnosi possa riscontrasi similare. In Pagnanelli, la ricerca del fare poetico ed artistico in generale si volge verso una finalità che l’autore più di una volta rivendica come semantica, o come alla ricerca di un significato, in cui l’estetica è “scienza del disvelamento e del sospetto, di quel controllo che è l’irrinunciabile e residua insistenza di un’etica”.
In un tempo in cui “ il patrimonio stilistico, formale e culturale dell’umanità può essere l’oggetto di una simulazione che si presenta come tale, di una finzione che fornisce assieme a se stessa anche i segnali della propria irrealtà” ciò risulta agonico ed avvincente allo stesso tempo, un confronto eroico con la storia, con la sua deriva delle grandi narrazioni e dei sensi ultimi, dei principi.
Sentita è la necessità di configurare, se non una poetica esplicita, una visione estetica precisa (per quanto l’attenzione dell’autore sull’importanza di una poetica non è mai meditata marginalmente, ma sempre tenuta in considerazione). Un’estetica in cui la sovrabbondanza di simboli non annulla l’individuo e la sua capacità d’espressione, ma lo pone in una “seconda vista”, come l’autore stesso ci indica. Tale “seconda vista” potrebbe essere per il poeta e critico la visionarietà, attraverso la “determinazione di fissare lo sguardo sul vuoto dei simulacri e ripopolarli con la presenza di immagini reali o visionarie, non importa, ma appunto autentiche”.
(fine della prima puntata)
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
l’hidalgo stanco non traccia più chimere nell’arco del cielo