Lo struggimento delle fate

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Giandomenico-Cicchetti

Giandomenico Cicchetti

 

di Giandomenico Cicchetti

Ci sono molti modi di leggere un libro: lo si può divorare in un’unica notte insonne o nel languore di un giorno accidioso; lo si può, al pari di una storia d’amore, incominciare e abbandonare per due o tre volte, come si può terminarne la lettura anni dopo ritrovandolo per caso; lo si può sfogliare saltuariamente, estrapolandone spezzoni incompiuti; lo si può leggere svogliatamente o appassionatamente, rigettandolo o facendolo proprio; lo si può rileggere un numero indeterminato di volte, giacché, come ha scritto Manganelli, un libro non finisce mai: non finiamo mai di coglierne le implicazioni. Il lettore, in ogni momento della propria vita, è accompagnato da un libro che ne asseconda o ne allevia gli stati d’animo, che ne alimenta le momentanee fisime o le annichilisce una volta per tutte. Ogni volta che ripensiamo ad un libro che abbiamo letto, come quando ascoltiamo una canzone cui fummo affezionati, ci sovviene un periodo delle nostra vita; la risacca della memoria ce ne riporta sensazioni, avvenimenti, pensieri, umori, primavere, paesaggi: la lacrima che sbiadisce l’inchiostro della pagina, la glossa annotata a matita, la frase scherzosa scritta a mo’di dispettosa bricconata o affettuosa facezia dall’amico o dall’amante, il tabacco andato a finre nel solco che congiunge le pagine, la macchia di caffè: tutto questo si fa letteratura, si intesse nella trama del romanzo, ne diviene ulteriore personaggio, si incarna nell’enjambement della poesia dei nostri giorni, tenendo assieme, in due versi differenti ma consecutivi, concatenati, inscindibili, il sostantivo del nostro presente e l’aggettivo nostalgico del nostro vissuto; ed il lettore che tra vent’anni, oltreoceano, si immedesimerà nel personaggio di quello stesso romanzo o sentirà il respiro venirgli meno alla lettura di quello stesso, inatteso, meraviglioso enjambement: questo lettore si sarà immedesimato nella nostra storia, ne avrà percepito la diversa sfumatura che essa pure ha apportato allo scritto.

bulgakovQuando siamo indignati, colti da un attacco di misantropia, facciamo appello alle prose di Gadda per trarre elementi a supporto del nostro sdegno; quando ci sentiamo umiliati dall’infausto esito dell’ennesimo amore sbagliato, ci rinchiudiamo, mesti ed adirati, nelle stanze di Majakovskij, dove il fumo di tabacco ha roso l’aria, dove flauti di vertebre intonano macabre romanze a donne maledette, generate da un ignoto Hoffman celeste, mentre pistole minacciano di mettere alla nostra vita il punto di un proiettile; quando sentiamo l’esigenza di una rigenerazione morale e spirituale, un impulso ad una catarsi mistica che ci depuri del male che serbiamo negli anfratti più tetri e reconditi della nostra anima, prendiamo in mano un poderoso tomo di Tolstoj; quando vogliamo imbarcarci verso mete esotiche e avventurose, salpiamo assieme ai pirati di Stevenson o ai poco raccomandabili uomini di mare di Melville; quando non possiamo più ignorare il lamento del nostro dolore e avvertiamo l’esigenza di arrivare in fondo ad esso, fino alla sua essenza più lancinante, distruttiva, facinorosa, fino all’orlo percorribile dell’abiezione umana, ci immergiamo nelle pagine di Dostoevskij; oppure, più semplicemente, entrando in libreria o navigando in rete, acquistiamo un lirbo che ci attira per il titolo, per la copertina, perché ne abbiamo letto in un saggio, perché ce l’ha consigliato una persona cara.

Alle volte, però, capita al lettore di dover soddisfare un singolare bisogno: quello di sfuggire, con facilità e piacere, alla difficoltà e all’insormontabilità dei limiti imposti dalle leggi che regolano il reale, ridendo di tutto ciò che lo tormenta: è in questi momenti che, per pura magia, una fatina dotata di bacchetta magica viene in soccorso al lettore e tutto diventa possibile: ci sarà sempre qualcuno disposto a fare le cose al posto nostro; vedremo nascere, da un tulipano che si dischiude, una bambina piccola così, che ha per culla un bel guscio di noce ben lucidato, con petali di viole del pensiero per materasse e una foglia di rosa per coperta; potremo procurarci denaro a volontà e diventare re semplicemente battendo un acciarino su una pietra focaia o verificare la natura regale di una donna che, fradicia e malvestita, bussa alla nostra porta asserendo d’essere un’autentica principessa, mettendo un pisello sotto le venti materasse e i venti piumini sui quali la faremo dormire: pensiamo un po’ che comodità: non dover ricorrere a documenti d’identità, attestati, autocertificazioni!

Leggendo le fiabe di Andersen o sfogliando a caso Le avventure di Pinocchio, abbiamo l’impressione di essere in mille luoghi, in mille persone, in mille vite ma, al contempo, avvertiamo di essere al sicuro, dove tutto può accadere all’improvviso e nel modo più inatteso, eppure accade senza conseguenze: siamo in una stanza senza tempo, in un inverno fatato, avvolgente, di cui non avvertiamo il gelo, ben riscaldati dal camino dell’immaginazione: tutto è simbolo, tutto è verità, tutto è pericolosissimo, tutto è innocuo: assistiamo ad uno spettacolo allestito per il nostro divertimento, in cui viene inscenato tutto ciò che ci spaventa, che ci tormenta, soltanto affinché divenga finalmente senza consisteza, e si dissolva nella fatuità rassicurante di un sorriso; regrediamo ad uno stadio infantile, col vantaggio, rispetto alla vera infanzia, di essere coscienti della nostra infrazione, del nostro dolce contravvenire alle prescrizioni unidirezionali del tempo, ricavandone il piacere del proibito, quel gusto squisitamente infantile di contravvenire ai divieti del mondo adulto per vivere 91505va-301x450un’esperienza di cui l’adulto sarebbe incapace: l’estasi dell’immaginazione. È cio che avviene nella fiaba di Andersen “I fiori della piccola Ida”, quando un noioso consigliere di cancelleria tenta di dissuadere la bambina dalla credenza che di notte i fiori si animino per partecipare a fastosi e raffinati balli; fortunatamente la piccola diffida del consigliere, che nella sua sterilità mentale ed emotiva le avrà, di certo, per inconscia associazione analogica, ricordato la lugubre atmosfera dei cimiteri: la sera stessa Ida si gira e rigira nel letto senza prendere sonno e, quando finalmente si decide ad alzarsi per controllare i suoi diletti fiori, assiste al loro ballo incantato, mentre uno di loro fa il verso proprio a quell’incredulo consigliere … povero consigliere!, Ida ancora non si rende conto che dovrebbe usargli la cortesia di comprenderne la smisurata tristezza della condizione di uomo privo di immaginazione, da cui gli deriva l’assenza di quel potere demiurgico che dal possesso di codesta qualità discende, invece di serbargli rancore: il noioso consigliere di cancelleria è uomo solo in quanto consigliere, l’espressione del suo essere collima con una firma posta in calce ad un documento asettico: la certezza della sua identità finisce, paradossalmente, per privarlo di identità: ci fa pensare al vestito vuoto, descrittoci da Bulgakov nel suo romanzo “Il Maestro e Margherita”, un vestito senza alcun uomo ad indossarlo che, privato della sua componente umana, continua a svolgere con diligenza nevrotica e grottesca le sue mansioni impiegatizie; nulla lo sgomenta, nulla lo turba, neppure lo scompiglio della gente che lo vede all’opera, continuerà ad occuparsi delle sue pratiche finché non le avrà sbrigate tutte.

L’omicidio, la povertà la sventura, le imposizioni, il raggiro, il moralismo, la perdita della libertà: questi grandi temi, che attraversano la grande letteratura di tutti i tempi; queste spaventose minacce alla nostra vita ci appaiono, nelle fiabe, accadimenti incidentali, ordinari, da cui non abbiamo nulla da temere. Gli scrittori di fiabe prestano le loro penne alle funzioni delle bacchette magiche, mutuandone i poteri: con una semplice frase fanno apparire una strega o un terribile mostro; uccidono una fata dai capelli turchini, poi la fanno rivivere miracolosamente; infondono la capacità di volare ad un baule soltanto sfiorandone la serratura. Quale forza misteriosa e torbida, dunque, si cela dietro le righe scanzonate di questi autori? Quale perverso amore, disumano e viscerale, quale totalizzante abnegazione spinge la fata di Collodi ad infrangere il cuore vegetale del burattino e ad abbandonarlo alle fauci della balena? La forza esorcizzante delle fiabe, che abbiamo colto in Andersen e Collodi, camuffa un più ben più profondo senso d’orrore.

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Franz Kafka nel 1906

È forse errato, ad esempio, individuare in Gregor Samsa un illustre cugino del burattino Pinocchio? Quale inquietante legame ha intreccaito le sorti di queste due opposte nature? Rileggiamo l’incipit de “La metamorfosi” di Kafka: <<Una mattina, svegliandosi da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò nel suo letto trasformato in un insetto mostruoso>>. Qual è, al risveglio, una delle prime preoccupazioni di Gregor? Il lavoro: Gregor si tormenta perché, nello stato in cui è, non potrà attendere ai suoi doveri. E qual è il primo incontro fantastico di Pinocchio? Quello col Grillo-parlante, che per prima cosa ammonisce Pinocchio riguardo al suo dovere: andare a scuola o quanto meno imparare un mestiere … e non ci riporta questo, forse, al vestito vuoto di Bulgakov? … ma stiamo facendo una gran confusione: procediamo per gradi!, e cominciamo segnalando i primi, inequivocabili, sintomatici segni della parentela tra Gregor e Pinocchio: innanzitutto, la metamorfosi; in secondo luogo, il rapporto col proprio corpo che da essa deriva; in terzo luogo, l’approccio patologico al dovere; non ultimo, il rapporto con la famiglia.

Per Gregor la metamorfosi è una sanzione immeritata, un tragico evento che sconvolge la sua esistenza come una punizione irrogata da ignoti numi spietati, una disumanizzante condanna a morte; per Pinocchio accade l’esatto opposto: la metamorfosi è l’agognato evento umanizzante, che lo libererà dalla sua degradante condizione di burattino. Per quanto riguarda il rapporto con la corporeità, basti pensare a due significativi episodi di cui i due sono protagonisti: quando Gregor deve aprire la porta per uscire di camera sua, già atteso dal procuratore della sua ditta, dopo aver arrancato con le sue zampette, profondendo vanamente le sue energie nel tentativo di girare con queste la chiave, è costretto ad adoperare la bocca, o meglio, l’equivalente di una bocca, forzando, col suo pensierare d’umano, la sua corporeità di insetto: soltanto sanguinando riuscirà a girare la chiave; quando la sua adorata fata si finge morta, Pinocchio piange di disperazione, la sua reazione emotiva è quello di un vero e proprio bambino sensibile, eppure quando vuole manifestare fisicamente il suo strazio incappa è indotto al ridicolo dalla sua corporeità: <<fece l’atto di volersi strappare i capelli: ma si uoi capelli, essendo di legno, non poté nemmeno levarsi il gusto di ficcarci dentro le dita>>; entrambi hanno un cuore umano in un corpo inumano. Gregor, essendo partorito da Kafka, ne eredita il complesso e controverso rapporto col dovere e con l’autorità, con la famiglia, di cui non è il caso di dibattere succintamente in questa sede, esistendo, in merito all’argomento, una quantità sterminata di letteratura: limitiamoci a ricordare e commemorare adeguatamente la morte di Gregor, una morte annunciata eppure inattesa, poco prima della quale egli ripensa con amore e commozione alla propria famiglia, desiderando fermamente la propria scomparsa: una morte inavvertita, inconsapevole, lieve, quasi che Gregor abbia timore di disturbare la propria famiglia, di arrecarle danno persino con l’esalare il suo ultimo respiro; Piocchio non ha genitori ma trova un padre in Geppetto e una madre nella fatina, è volenteroso, vuole diventare un uomo in carne ed ossa ma è la sua stessa natura di burattino ad impedirglielo: vorrebbe studiare, non dare dispiaceri al povero Geppetto, ma da ogni angolo sembrano saltar fuori tentazioni che lo distoglieranno dal suo intento fino alla metamorfosi definitiva: a differenza di Gregor, Pinocchio non muore mai, sopravvive al fuoco, al tentivo di friggerlo come un pesce, all’impiccagione, all’inabissamento nell’oceano tremendo: Pinocchio non muore perché non è mai nato, non è mai stato vivo, acquisterà la vita soltanto quando, divenuto carne umana, guarderà le sue spoglie legnose giacere inanimate su una sedia.

Gregor e Pinocchio, insomma, attraversano gli stessi drammi in modo diverso e con esito diverso; e come l’uno è sin dal principio 304764_461277667225914_1762881472_n_large-313x450condannato per la sua innocenza, l’altro, parimenti, è aprioristicamente salvato dai suoi peccati: possiamo scorgere, in queste due sorti, due volti della stessa luna d’angoscia, che si manifesta nelle sue due contrapposte forme: quella insondabile e cupa di Gregor, e quella luminosa e tragica di Pinocchio. Quanto più è palese e consapevole l’angoscia di Gregor, retaggio gotico d’un tetro sentire, tanto più è incomprensibile e profonda quella di Pinocchio: cosa mai potrebbe essere più inquietante di un angoscia talmente assuefatta al suo stato da ridere di sé stessi? Cosa mai è più tragico di questo fiabesco struggimento delle fate?



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