Libri – Clof, clop, cloffete, cloppete

Riflessioni (in)solite per un anno diverso

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Giandomenico-Cicchetti

Giandomenico Cicchetti

 

 

di Giandomenico Cicchetti

Che cosa sono i libri? Di cosa parlano? A che servono? Perché leggerli? Perché scriverli? … alle ultime due domande sarebbe opportuno apportare una correzione: perché leggerli ancora? perché scriverli ancora?

Se soltanto non fossimo qui, ahimè, col bilancio di un anno appena trascorso che sempre pesa sulle spalle e ignote prospettive per il neonato ma pur sempre transeunte 2014, in questi giorni in cui, come in tutti i primi giorni di ogni nuovo anno che sembra destinato ad apparirci dolente e squallido come ci appare quello appena trascorso, ogni cosa ci induce a riflettere sullo scorrere del tempo, sul senso dei nostri tempi, sul nostro modo di viverli, di rapportarci ad essi, sui compiti da cui siamo gravati per tentare di migliorarli … orbene, evadiamo! … proviamo, ad esempio, ad immaginarci nella Russia zarista: siamo burocrati di alto livello e, ovviamente, troviamo comunque dolente e squallido il nostro tempo: i nostri figli sono dei nichilisti, rinnegano tutto ciò di cui noi siamo vissuti, tutto ciò per cui abbiamo combattuto e per cui molti di noi sono morti, ci sono degli scrittori e degli scienziati che coadiuvano con teorie e opere d’arte le ignominiose fantasticherie dei giovani, siamo insoddisfatti, abbiamo voglia di cambiamento, vogliamo lasciarci alle spalle il fantasma delle guerre napoleoniche, non ne possiamo più di sentir acclamare gli stessi eroi e di veder demonizzati gli stessi fallimenti, gli stessi eventi funesti e sanguinosi: è una storia che va avanti da decenni, adesso ci ha stufato!

Mettiamo a conoscenza un nostro amico di questo nostro patema, lui ci risponde che può aiutarci, l’indomani ci farà recapitare tre volumi, antitetici e complementari, dopo la lettura di questi avremo un modo completamente diverso di vedere le cose, non solo le guerre napoleoniche, ma persino la storia e la vita: dopo la lettura dei libri non potremo più tornare indietro. Il giorno seguente rincasiamo dal lavoro memori della promessa del nostro caro amico e consulente, eccitati chiediamo al lacchè (la servitù della gleba è già stata abolita da Alessandro II) se non sia per avventura giunto un plico dal tal dei tali, il lacchè conferma e si affretta ad andarlo a prendere: ecco, ora stiamo tenendo tra le mani Guerra e pace di Tolstoj, I demoni di Dostoevskij, Padri e figli di Turgenev.

Quella però era un’altra epoca: terminata la nostra piccola evasione, la nostra eversione temporale, è già ora di ritornare in noi stessi: ai nostri tempi, ai nostri rompicapi; in nessun romanzo di quegli anni troveremmo un personaggio disposto a confessare esplicitamente, persino con una certa dose di orgoglio e compiacimento, il suo desiderio che il cervello umano venga sostituito dalla legge della domanda e dell’offerta, come invece fa l’Arnheim di Musil, brillante uomo d’affari e al contempo affermato autore di saggistica, la cui formula vincente è considerare il commercio un’opera d’arte: una vera e propria poesia! E’ proprio questo il suo segreto: interessarsi alla cultura, mostrarsi sensibile ad essa senza mai appassionarsi davvero, prendendola per quello che un homo aeconomicus degno di questo nome deve prenderla: un vezzo, uno svago, un passatempo per uomini di successo che sono più intelligenti dei loro colleghi e lo dimostrano essendo in grado di apprezzare, oltre al corretto funzionamento di una macchina aziendale efficiente ed efficace, anche un quadro ben dipinto o una quartina con le rime e gli accenti al posto giusto: a tanto siamo ridotti, ad una formula macroeconomica che rimpiazza la complessità delle funzione cerebrali! … Essendo in tal modo considerata e vista, quali prospettive ha la letteratura? Sappiamo che sono stati scritti libri sul fatto che tutti i libri sono già stati scritti. Come rispondere, dunque, alle nostre domande? Cominciamo consultando qualche luminare a noi caro.

Nella sua Confessione, il Tolstoj moralista e teologo ci dice che capolavori come Guerra e pace e Anna Karenina sono stati scritti per insegnare qualcosa, ma neppure lui sapeva più cosa il Tolstoj ambizioso e vanitoso aveva da insegnare. Agli artisti era riservato un posto prestigioso nella società, dei libri si discuteva nei maggiori salotti mondani dell’epoca, scrivere era molto remunerativo. Che cosa sono dunque Guerra e pace e Anna Karenina? Perché sono stati scritti? Per il ruolo spettante all’autore o per l’impellenza espressiva di un animo indolente? Lo stesso autore sembra ignorarne il motivo. Consultiamo allora il De Profundis di Oscar Wilde, lo scrittore che, in epoca in cui utile è solo ciò che è remunerativo, ha affermato che l’arte è per definizione inutile: c’è un passo in cui l’autore rintraccia nella sua opera la profezia della sua sorte. In un momento così oscuro della sua vita, un momento in cui “tra me e il ricordo della felicità è un abisso profondo quanto quello che c’è tra me e la felicità adesso”, l’autore, grazie ai suoi scritti, comprende che ognuno è, nello stesso momento, ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà: lo scrittore de Il principe felice, libello di fiabe struggenti e poetiche, era già il mesto detenuto vittima della morale e dell’amore. Non contenti, spulciamo Il mio Carso di Slataper, questo libro in cui l’incontenibile vitalità giovanile dell’autore si avvicenda alla gravitazionale attrazione che la morte esercita sui suoi mortali satelliti, i vivi che la portano dentro, in cui le vicende familiari e le avventure del protagonista si alternano alle riflessioni da letterato, le interrogazioni circa il senso dello scrivere, tramite le quali si giunge ad una conclusione che ha dell’evangelico: beato lo scrittore che, pur sapendo di far cosa vana, non desiste dal duello con la pagina: di costui è il regno delle lettere.

coverNel racconto di Celati I lettori di libri sono sempre più falsi (1987), troviamo un giovane studente di lettere alle prese coi nostri medesimi quesiti. Lo studente lascerà la facoltà: si accorge che nell’ambiente accademico nessun altro è interessato alle risposte che tanto gli preme trovare, tutto è falsità, tutto è maschera: trova un impiego come venditore porta a porta presso una casa editrice. Il suo dirigente, un ingegnere che non ha mai letto un libro in vita sua, rimprovera duramente il ragazzo e la sua collega (nonché coinquilina ed amante) per la loro scarsa produttività e durante la sfuriata suggerisce un’involontaria risposta alle ossessioni del ragazzo dicendo che “un libro è carta stampata da vendere, prima d’essere una roba che si legge”: a breve il ragazzo si licenzierà. Alla fine di un travagliato percorso, finirà per fare il critico letterario: non troverà mai una vera e propria risposta alla sua domanda, tutto ciò che riuscirà a capire, alla fine del racconto, è che “tutto ciò che si scrive è già polvere nel momento stesso in cui viene scritto, ed è giusto che vada a disperdersi con le altre polveri e ceneri del mondo. Scrivere è un modo di consumare il tempo”.

Questa risposta così disincantata ci lascia sgomenti: ci aspetteremmo argomentazioni filosofiche, poetiche, misticheggianti; invece la risposta giunge secca e mortale come un proiettile: scrivere è un passatempo come un altro.

Un libro è carta stampata da vendere: è interessante notare come la riduttiva definizione dell’ingegnere, coniata in vista di fini lucrativi e non artistici, sia ormai da considerarsi obsoleta a causa del progressivo prender piede della tecnologia anche nella diffusione della cultura, quindi dei libri, in questo scorcio di secolo. Siamo arrivati a un punto paradossale se non addirittura all’inversione del rapporto tra spazio virtuale e spazio reale: se fino a qualche tempo fa gli strumenti telematici venivano impiegati per comunicare ciò che avveniva nella (cosiddetta) realtà ora la (cosiddetta) realtà sta diventando un prolungamento della virtualità, il luogo in cui si parla di ciò che è successo su questo o quel social network; per contro quando si verifica qualcosa nella (cosiddetta) realtà si pensa immediatamente alla rappresentazione che di quell’evento si darà nella dimensione virtuale: lo spazio virtuale ha la pretesa di proiettare l’immagine di un complesso intrigo di impulsi fisiologici, reazioni emotive, istanze cerebrali, bisogni economici primari secondiari o terziari che siano, accadimenti di portata domestica nazionale internazionale e lor percezione, gorgoglii di stomaco o sfintere e lacrime d’anima atterrita: la pretesa di rappresentare tutto questo guazzabuglio imperscrutabile, questa non calcolabile, inquantificata, accozzaglia di disomogenee unità, questo groviglio inestricabile di sputacchi metafisici e scaracchi d’atomi vili, che da immemori tempi prima i vetusti avi e poi i moderni coevi chiamavano e si ostinano tutt’ora a chiamare vita: rappresentarlo attraverso uno slogan e un’istantanea: mutilare un corpo, privarlo dell’integrità, della complessità d’organismo, scindere in porzioni l’indivisibile, a fini esemplificativi, ostensori, illustrativi, divulgativi: fini pur sempre mendaci e falsanti, aventi lo scopo di illudere l’osservatore di partecipare a qualcosa che gli è completamente estraneo: strappar via un dito o due, un orecchio, un occhio, qualche dente e dire: ecco: questo è il corpo, proprio sotto il vostro sguardo, scrutate senza ritegno alcuno: mentre non se ne offre, al fruitore fremente di sadismo e di voyerismo, che qualche amputato brandello.

A differenza di un investimento di cui possiamo calcolare la convenienza in base al tasso d’interesse, non possiamo prevedere quale sarà il rendimento di questi nostri strani tempi, le leggi economiche non vigono in questo campo: nonostante tutti i contro, tutti gli ostacoli, tutti i deterrenti possibili e immaginabili, nel 2013 c’è pur sempre stato qualcuno che ha continuato a leggere e scrivere libri, sarà così anche nel 2014. In questo modesto articoletto si vuole ipotizzare che la scrittura sia un umore, una condizione emotiva sviluppantesi a diversi livelli, a diversi gradi di intensità: ad un umore non ci si può sottrarre, che sia il semplice istinto di riportare sulla pagina il resoconto della propria giornata o la smania demiurgica di dar vita al microcosmo di un romanzo. Stando a questa scala di valutazione, la scrittura creativa è lo stadio patologico dell’umore scrivente.

Franco Arminio, eretico teologo irpino della poesia, che ci propone di sopperire al vuoto teologico creato dagli ideali politici ed economici mediante i più autentici e profondi ideali poetici; che ha ereditato, per un arcana parentela, la vocazione civile di Scotellaro e il suo inquietante malessere, una condizione di disagio e di vuoto in cui “gli anni passano così / nel cuore della notte di neve”; che vaga irrequieto per i suoi paesi, osservando di sottecchi, con lo sguardo obliquo e dimesso del cane, sia il paesaggio e tutto ciò che di umano è entrato armonicamente a farne parte, integrandosi in esso fino a costituirne un elemento caratterizzante, sia il ciarpame edilizio che in maniera spregiudicata ne deturpa le fattezze; che ha appreso la dura lezione di Sinisgalli, vedendo il ripudio della sapida scherda sinisgalliana, del prelibato baccalà, soppiantato, “quaggiù / nel Sud profondo / di merda”, dalla frenetica corsa alle risorse stanziate per il terremoto: ripudiando le proprie origini rurali e impossessandosi in modo incompleto e distorto della cultura del lucro e dell’apparenza come mera autocelebrazione; che ha visto ad una ad una chiudersi le porte delle case dei suoi paesi invisibili, da dove “se ne sono andati tutti / specialmente chi è rimasto”; che ha assistito allo svuotamento della piazza, presa d’assalto ormai soltanto dai paesanolologi, entità sterili e tetre che vivono nel paese senza coglierne le possibilità ed hanno come esclusive occupazioni la lascivia del gioco delle carte e la perfidia del pettegolezzo; che ha scritto della comunità dell’autismo corale, dove la possibilità, in teoria infinitamente maggiore rispetto al passato, di comunicare finisce per diventare indifferenza e distacco, per risolversi nella completa “lacerazione dei legami”; ebbene, Arminio, nelle pagine iniziali di Terracarne (2011), scrive:

Io abito il mio corpo come si abita una casa sospesa sulla frana. Scrivere è un modo per tenere a bada il pericolo, la perenne emergenza su cui è fondata la mia vita.

È questo l’umore scrivente dei giorni nostri? La perenna emergenza di “un tempo in cui non ci sono promesse credibili per questo mondo, né per l’aldlà”?

Nella raccolta di racconti Il tempo invecchia in fretta (2009) di Antonio Tabucchi, si parla di uno scrittore che va a trovare la zia malata downloadall’ospedale, ascoltando il Clof, clop, cloffete, cloppete delle gocce che cadono dalle sacche che tengono in vita la zia; lo scrittore riflette sui libri che ha scritto, ma soprattutto sul libro che non ha ancora scritto, il suo capolavoro, il grande romanzo che tutti si attendono da lui, lettori, critici, case editrici, così butta giù su un foglio qualche frase, una dietro l’altra, ispirato dal ricordo di un gioco di infanzia; pensa di chiamare una signora che gli ha proposto di scrivere un libro per bambini; proprio mentre se ne sta impalato davanti al telefono a gettoni, indeciso, titubante, sente una bambina calva, spinta in carrozzella da un’infermiera, esclamare: Ma questa è la cosa più bella del mondo! – Il povero scrittore è basito, non se lo sarebbe mai aspettato: lo aveva detto una bambina calva trascinata in carrozzella da un’infermiera, non riesce a credere che persino in quelle condizioni si possa conoscere la cosa più bella del mondo: lui è uno abituato ad angustiarsi anche su questioni minime come chiamare o non chiamare una signora che ci ha fatto una proposta di lavoro, figurarsi quanto gli sarebbe costato proclamare una cosa la più bella di tutte! Possibile che alla sua età, con tutto quello che aveva visto e conosciuto, non sapesse ancora quale era la cosa più bella del mondo?

Chi è, dunque, lo scrittore? È forse colui che per tutta la vita insegue la cosa più bella del mondo senza mai riuscire a trovarla? Colui che, dopo infaticabili ricerche, si imbatte soltanto in una verità che è tanto la più semplice del mondo, quanto al di là della nostra portata: l’essenza della grande nullità (nota persino alle vacche)?
Senza rendercene conto, ci siamo ridotti come il nevrotico lettore di Pascoli che sfoglia dalla prima / carta all’estrema il libro per trovarvi la verità; volta i fragili fogli a venti, a trenta, / a cento, con impaziente mano; passando al nostro vaglio diverse possibilità, nessuna delle quali ci appare soddisfacente, siamo anche noi un po’ come lo scrittore di Tabucchi, indecisi di fronte alle alternative, esitanti, dubbiosi, sfiduciati, insoddisfatti, ansiosi di imbatterci in nuove possibilità, per poi non propendere per alcuna di esse: ascoltiamo il clof, clop, cloffete, cloppete delle parole e delle idee nostre e altrui piovere dalla memoria e dalla fantasia, fare un mare nella nostra mente: una marea torva e tumultuosa, con onde dalle quali rischiamo di essere travolti e trasportati troppo a largo; come il recidivo lettore di Pascoli che nuovamente volta le contorte / pagine, e torna ad inseguire il vero, noi chiudiamo ora i nostri libri per sfogliare altrove: bando ad anacronistici burocrati russi e all’odierna inversione del rapporto tra spazio virtuale e spazio reale; sarà meglio tornare là fuori nel mondo: amare, andare, non è cessato il tuono / calpestare l’angoscia, ci esorta, perentorio, Pasternak!, sondiamo, esploriamo, vaghiamo: chissà che le vacche di Celati non abbiano ragione a credere che potremo trovarci qualcosa che serva a schiarirci le idee: magari, addirittura, se siamo fortunati e questo 2014 inzia bene, anche a farci scattare l’umore scrivente.



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