“La ragione delle mani” A tu per tu con Emidio Clementi

Intervista esclusiva al leader dei "Massimo Volume"

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GIACOMO-ALESSANDRINI

Giacomo Alessandrini

 

di Giacomo Alessandrini

Lo scorso 24 novembre, presso l’Auditorium Sant’Agostino di San Ginesio (MC) si è tenuta una splendida serata con i ragazzi dell’associazione culturale La Bottega di Hamlin che hanno invitato in occasione dell’Hamlin Festival due big della musica alternativa italiana: Emidio Clementi e Corrado Nuccini. I due hanno portato in scena un reading tratto dall’ultimo libro di Clementi (frontman dei Massimo Volume), La ragione delle mani, Playground edizioni (2012). Come ipnotizzato il pubblico, durante l’esibizione, nonostante la non semplicità dello show, sospeso tra lettura e musica: ma Clementi e Nuccini sanno come coinvolgere i loro spettatori. Abbiamo accostato Clementi alla fine dello spettacolo: oltretutto, Emidio è un marchigiano, per la precisione di San Benedetto del Tronto, città dalla quale partì negli anni ’80 alla volta di Bologna, dove – alcuni anni dopo – fondò i Massimo Volume, gruppo post-rock di punta del panorama underground musicale italiano:

D Nel disco “Lungo i bordi” (ndr.: il secondo disco dei Massimo Volume), nel testo della canzone Il primo dio, citi il poeta italo-americano Emanuel Carnevali. Quanto della poesia c’è dentro la tua musica? E, nella fattispecie, quanto dell’esperienza americana di Carnevali ha inciso sulla tua formazione?
R- Alla scrittura mi ci ero già avvicinato. Carnevali è stato fondamentale per me nella scoperta dello sguardo. Descriveva un mondo che, per certi versi, combaciava con il mio. Certo, il suo molto più tragico, ci mancherebbe…
Un mondo di retrocucina di ristoranti, di lavori marginali, di ricerca di una via artistica nella scrittura. E’ stato capace di descrivere quel mondo che lo circondava, cosa che io ancora non ero riuscito a fare, pensando di non avere una vita degna di essere raccontata. Mentre grazie a lui ho scoperto quello di cui avevo bisogno, ovvero ciò che semplicemente mi circondava. All’epoca fu una scoperta deflagrante per la mia esistenza. Forse, incontrandolo in un’altra vita, l’avrei addirittura evitato. Non era una persona facile. Ma di questa intuizione gli sarò sempre grato.

D Anche nel vostro ultimo lavoro appare un poeta. Sto parlando di Danilo Dolci, che ritroviamo nel brano Dio delle zecche…
R – Sono arrivato a lui casualmente, leggendo una sua raccolta di poesie. Quello che da subito mi ha colpito è stata la sua potentissima voce di rivolta. Semplice: mi ha preso per mano e mi ha portato nel suo mondo. Man mano che ho approfondito la sua scrittura mi ci sono riconosciuto, una vicinanza con la mia “voce”, mi ha fatto venir voglia di  utilizzarlo. Non è un cut-up come è stato fatto passare, ho ricreato un filo narrativo, le frasi non sono collegate per allusioni o per contrasto, ho cercato di dargli un senso estrapolando dalle sue strofe. Mi ha fatto anche molto piacere utilizzarlo come incipit di un disco. Un poeta italiano, un poeta che oggi viene messo in disparte; non si parla o si parla poco, di Dolci!

D- La collaborazione con Nuccini nasce anche da un’affinità letteraria, oltre che umana?
R- Strettamente letteraria no, artistico-umana sì. Conosco il suo stile,  sapevo che si sarebbe adattato bene al tipo di spettacolo che dovevamo fare.

D- Qual è il tuo rapporto con i postmoderni? Ad esempio, il tuo stile di scrittura mi ricorda Philip Roth...

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Emidio Clementi

R- Lo adoro, da lettore lo adoro, però è un visionario. Pur essendo uno scrittore realista, riesce a mettere in scena in un romanzo cinquanta personaggi tutti credibili, tutti che sembrano provenire dalla sua autobiografia. Ultimamente sono tornato a leggere Everyman, che è meraviglioso. Senza falsa modestia, al massimo potrei essere una sua virgola. Stiamo a livelli siderali, con Roth. Non riesco neanche a vederlo come un’ispirazione. Non lo leggo nemmeno tentando di capire come funziona la sua scrittura, lo leggo per il piacere di farlo. Ti ispirano di più quelli che puoi raggiungere.

D- In nome di Dio è un famoso film western che tu citi nella canzone omonima; in Simbiosi degli Afterhours (nella versione live) reciti un pezzo tratto dal Mucchio selvaggio, altra pellicola cult… Qual è il tuo rapporto con il cinema d’autore?
R- Non sono un esperto di cinema, anche se il cinema spesso mi ha aiutato a sfuggire all’incubo della pagina bianca. Faccio dei tentativi, così come nell’ultimo disco; cerco di catturare qualcosa che è al di là di me e farla mia nel privato, come nel caso delle scene western di Peckinpah e John Ford. Ci sono delle immagini che mi sorprendono, così tento di riprenderle, sporcandole con il mio vissuto.

D- Per quanto riguarda L’ultimo dio, fai riferimento alle mani di tua madre come fonte e trasmissione di vita. Nella tua ultima opera, le troviamo addirittura nel titolo, oltre che nel testo.
R- Secondo me il senso di eleganza di una persona è molto nelle mani: mi affascinano. Nel Faust, ad esempio, si parla dei loro movimenti come se vivessero di un’intelligenza propria. Ne La ragione delle mani le ho usate per far capire l’importanza che hanno per il musicista; mi servivano per dare materialità ad una cosa così eterea come può essere la musica. Le mani superano il pensiero, quasi trascendendo l’umana comprensione…



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