Senghor oltre la poesia
Visione, civiltà, intercultura

A 12 anni dalla scomparsa del grande poeta e statista senegalese

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Daniele Referza

 

di Daniele Referza

Pochi giorni or sono il mondo si è fermato per ricordare la figura di Nelson Mandela, l’eroe della riconciliazione nel Sudafrica dell’Apartheid; dodici anni fa (20 dicembre 2001) moriva Léopold Sédar Senghor, anche lui figura chiave del percorso di riconciliazione del Senegal col suo passato di colonizzazione francofona. Non si farà qui un confronto fra i due, poiché credo che, al di là delle loro specifiche differenze, molto poté in loro il medesimo spirito africano, ossia quella immensa capacità di tessitura sociale priva di ideologie che ha permesso a queste terre di perseverare di fronte all’olocausto di 80 milioni di vite strappate dalla tratta degli schiavi prima e dai lavori forzati poi. Credo che sia importante ricordare Mandela senza dimenticare Senghor: entrambi leader politici, entrambi primi presidenti della loro terra, entrambi tessitori del rapporto fra tradizione e modernità. Sarebbe un’ipocrisia, però, non provare a dire che esiste oggi una differenza rispetto agli anni ’60, anno in cui il Senegal divenne indipendente: allora il tentativo di riconciliazione fra tradizione africana e modernità tentato da Senghor venne fortemente osteggiato dai gruppi dirigenti occidentali, mentre oggi, momento in cui assistiamo allo spostamento di interesse economico dall’area francofona a quella anglofona del continente africano, Mandela viene celebrato come un profeta della riconciliazione ed un eroe. Strano ma vero: dimentichiamo l’uno per festeggiare l’altro.

Leopold Senghor

Leopold Senghor

Al di là di questi fattori geopolitici, credo sia necessario fare il punto su di un aspetto centrale e prospettico della filosofia di Senghor (il quale era prima pensatore e statista e poi poeta). Egli affermava: «Vi sarà una civiltà planetaria: una civiltà universale». La profezia che Senghor presentava negli anni ‘50 sembrerebbe, a dir la verità, nettamente confutata dalla storia del nostro presente: ovunque, infatti, si moltiplicano tensioni regionaliste, localiste, neoidentitarie e fondamentaliste le quali puntano ad un rafforzamento del concetto di identità. Si potrebbe dire inoltre che, guardando il mondo dall’alto e con occhio cinico, mai come oggi la possibilità di un dialogo fra culture, religioni e popoli sarebbe pur possibile, dati gli innumerevoli strumenti tecnici che abbiamo a disposizione, in grado di darci con un semplice click la percezione dell’immensità del mondo in cui viviamo. Come mai, allora, il dialogo sembra un’utopia dei cosiddetti “buonisti”?

Una ulteriore titubanza che potrebbe affliggere il moderno lettore di fronte a tale affermazione senghoriana sarebbe relativa ad un termine piuttosto complesso e stratificato come “universale”; quale caratura ha oggi questa parola quando nel pluralismo delle voci ciascuno sembra poter racchiudere la totalità del dire, ad esempio, nell’immediatezza dei 140 caratteri di Twitter? Come poter ancora dare credito all’universalità se, al contempo, i grandi fallimenti conosciuti dal tempo passato hanno preso origine proprio dall’anelito universalista di qualche cultura, divenuta poi colonizzatrice, imperialista, schiavista? Cos’è oggi la globalizzazione se non l’immane allargamento del mercato all’insieme dei popoli, ai quali merci e bisogni vengono venduti in cambio dell’accettazione di un contratto di delocalizzazione esistenziale?

Di fronte a tutto questo dobbiamo porre la legittima interruzione della riflessione. Abbiamo conosciuto la stagione dell’identità e della totalità e l’Europa è tutt’ora ereditiera di un passato tanto ingombrante. Di fronte all’abbattimento delle frontiere ed alla mondializzazione del contemporaneo l’Europa si presenta come il cacciatore sazio che cerca di far dimenticare la sua furia per commerciare in pace; altro spirito alimenta le rivendicazioni degli altri popoli, fino ad oggi mantenuti alla periferia della storia. Cosa potrebbe indurci a prefigurare una riappacificazione fra i popoli piuttosto che un nuovo imperialismo, magari anti-occidentale, che mutui la stessa violenza del passato?

Se potessimo guardare al nostro presente con la leggerezza dell’aquila, passando dall’alto in rassegna la tessitura delle comunità nelle ere storiche, saremmo forse in grado di dare un nome al nostro tempo, come accadde in passato con altri tempi, sempre misconosciuti nella loro macro-identificazione, ma perlomeno nominati: abbiamo infatti un Medioevo, una Modernità, un evo Antico. A noi, coevi del tempo, non è concesso questo. Col contemporaneo, si sa, tentare una nominazione è affare alquanto pericoloso e molto spesso vano. Ciò che si può fare, in ogni caso, è avere le antenne tese per percepire il respiro della storicità che il proprio tempo esprime in maniera particolarissima ed inesorabile.

Ciò che ha segnato profondamente il recente passato è senza dubbio la manifestazione della differenza: culturale, di genere o religiosa, essa ha portato il soggetto imperialista occidentale a fare i conti con la molteplicità del reale e con la sua esasperazione. Una civiltà della differenza ha condotto le nazioni europee ad avvalersi di (alcuni) concetti libertari che potessero garantire a ciascun individuo l’espressione del proprio modo d’essere e della propria libertà di scelta. Tale svolta culturale ha conosciuto la sua crisi nel 2001: dall’attentato alle Torri Gemelle la rivendicazione dell’identità ha riproposto la sua presenza, costringendo le élites culturali del mondo occidentale a fronteggiare l’avanzata di tale rivendicazione mediante l’utilizzo di “guerre preventive”, “missioni di pace” ed “esportazioni della democrazia”. Il diritto libertario ha mostrato negli ultimi anni il suo volto più autoritario, pur nascosto dalla maschera della difesa dei valori della democrazia.

Si può quindi ancora citare Senghor dopo le Torri Gemelle? Indubbiamente sì. Ciò che del filosofo senegalese dobbiamo recuperare è la speranza di poter riscoprire alle fondamenta della storia la roccia della fraternità umana. «Vi sarà una civiltà planetaria: una civiltà universale. Il solo problema che si pone è quello di sapere se essa sarà semplicemente la proiezione, sul mondo, di una civiltà particolare, europea, o la civiltà dell’Universale, cioè non l’accumulazione fianco a fianco dei valori di ogni civiltà, ma la simbiosi vivente di tutti i valori particolari, che sono complementari, di tutte le civiltà». La relazione di questo filosofo, poeta e politico senegalese con la critica italiana (per limitare il campo) è stata, eccetto rare e preziosissime eccezioni, a dir poco scorretta: si è salvato, di questo prolifico pensatore, solo ciò che creava meno disagio, trincerando il suo dire nell’ermetico guscio della traduzione poetica delle sue liriche. Mai come in questo caso la traduzione ha tradito: non c’era, infatti, alcun lirismo nei suoi versi e neppure l’ombra del gusto del frammento; ciò che non poteva essere compreso, essendo al di qua della modernità e al di là del sentire novecentesco, era l’anelito all’universale che la sua parola sprigionava. Amava ripetere che l’umanità è una tessitura di fili diversi che compongono un abito comune; la sua universalità era un appello alla dignità ed alla ricchezza che l’intero genere umano conserva nella sua linfa.

A partire dalla presentazione ad orecchie europee del mondo culturale africano, fatto di grandi regni, città metropolitane come Timbuctu ed un patrimonio artistico immenso, Senghor ha accettato la tragedia della colonizzazione europea con le sue devastazioni ed i suoi olocausti, sapendo che l’Africa non avrebbe ceduto alla sfida ed avrebbe rialzato il capo; l’avvento dei terribili bianchi, al suo sguardo profetico, poteva anche significare il naufragio dell’imperialismo europeo e l’apporto dei popoli africani all’appuntamento dei con l’universale, ossia l’epoca del dare e del ricevere delle nazioni – per noi il Terzo Millennio.

Scriveva Balducci ne L’uomo planetario: «Nell’ordine delle cose è scritta una richiesta: che l’umanità sia un soggetto unico del proprio destino». Se oggi ancora non siamo giunti alla mèta della civiltà del comune sentire ciò si deve all’attaccamento dell’uomo di ogni terra al guicciardiniano suo particulare. La storia però sta spingendo tutti noi verso una necessità impensata fino a pochi anni fa nella sua urgenza: l’intercultura, l’intreccio di nodi che mostri ciò che realmente siamo, inaspettatamente ciò che siamo sempre stati, pur senza saperlo. Siamo pronti a ridefinirci, ridestarci, ritrovarci alla luce dell’altro da noi, dell’estraneo, dello straniero (stra-ordinario)? E se non lo siamo per amore ora, lo dovremo essere per destino nell’avvenire: non sarebbe meglio accettare fin d’ora, dunque, seguendo Senghor, il nostro essere da sempre meticci sia per biologia che per cultura e lasciare da parte ogni istinto separatista?



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