Fra i tanti documenti relativi al cavallo, raccolti pazientemente dal compianto capitano Ermanno Mori (leggi l’articolo) e conservati nel suo amato “Museo del trotto” a Civitanova Marche, si può ammirare una singolare piantina in cui sono indicate le stazioni di posta e dalla quale si evince che lungo il Viaggio da Ancona a Roma se ne trovavano ben 22. Un documento curioso che riporta ad avventurosi viaggi settecenteschi effettuati su strade polverose. Storie di intrepidi postiglioni, carrozze, carradori, rimesse, cambi di cavalli, locande e naturalmente osterie da guida Michelin.Ed ecco le tappe che interessavano quel tratto di strada della nostra provincia a partire da Loreto, che in quel tempo era una villa di Recanati: Recanati, Sambucheto, Macerata, Tolentino (S. Severino), Valcimarra, Cappuccini, La Trave (Ponte la Trave), S. Bartolo (Gelagna?) e Serravalle. Poi, quando arrivò la superstrada, la Val di Chienti finì per perdere la sua importanza.
Tra queste, la stazione di posta di Valcimarra rimane miracolosamente intatta e rende ancora perfettamente leggibile la sua funzione originaria attraverso i due edifici in linea: la locanda San Giorgio e la rimessa per le carrozze. In quest’ultimo edificio è conservata l’insegna della locanda, mentre nell’altro rimane ancora il pennone della stessa, così come si è conservata la nicchia con dipinta una Pietà. Addirittura è ancora leggibile il tratto di parete a valle ricostruito dopo un fuori strada di un camion, mentre sulla parete della rimessa si può intravedere qualche lettera scolorita di una rarissima iscrizione del Ventennio scampata miracolosamente alla damnatio memoriae: “La salvezza della patria sta nel lavoro e nella disciplina”. Una frase tratta dal “Discorso ai ciechi di guerra” pronunciato da Mussolini a Roma il 18 marzo 1923, che lo storico Ariberto Segàla è riuscito a ricostruire a partire dal frammento rimasto.
E proprio vicino all’iscrizione bisognerebbe apporre una lapide, visto che nella vecchia stazione di posta di Valcimarra vi pernottarono, almeno per quanto c’è dato sapere, due importanti viaggiatori. Il filosofo Michel de Montaigne vi pernottò il 22 aprile 1581 durante il tragitto Foligno-Loreto, di cui fa un’accurata descrizione nel suo “Viaggio in Italia”, mentre nell’agosto del 1743 fu la volta di Giacomo Casanova. Il Casanova, all’epoca abate diciottenne, ha voluto tramandarci nell’autobiografia “Storia della mia vita” anche le disavventure capitategli lungo questa strada valliva che costeggia il fiume Chienti, durante il suo allucinante viaggio di ritorno da Loreto verso Roma. Egli fece una prima tappa a Tolentino dove, lungo corso Garibaldi e dietro la cattedrale di san Catervo, rimane ancora un edificio angolare dai caratteristici timpani in cotto sormontati da una corona, l’ex Albergo Corona, che prendeva il nome da una locanda esistente già dalla fine del Cinquecento. Gli storici locali sostengono che Giacomo Casanova fece una sosta a fine agosto del 1743 durante il suo viaggio verso Roma proprio in quest’albergo, che chiuse poi nel 1929. Infatti, il grande seduttore veneziano nell’autobiografia racconta di una disavventura capitatagli proprio a Tolentino, anche se, come vedremo, non specifica il nome della locanda dove si ristorò. Ecco la descrizione dell’avventuriero viandante al ritorno da Loreto: “… Un quarto d’ora dopo, passò una vettura vuota che tornava a Tolentino, ed il vetturino mi promise di portarmici per due paoli, ed io accettai. Di là sarei potuto andare a Foligno per sei paoli, ma una maledetta voglia di risparmiare me lo impedì, e, siccome mi sentivo in forma, decisi di andare a Valcimarra a piedi. Feci così, e arrivai dopo cinque ore che non ne potevo più. Cinque ore di marcia sono sufficienti per stremare un giovane che, per quanto forte e sano, non è abituato a camminare. Affittai subito un letto e mi coricai”.
L’albergo di Valcimarra dove pernottò Casanova non può essere altro che la Locanda San Giorgio. Infatti, il 21 maggio del 2008, nel corso di un sopralluogo nell’ultimo edificio a sinistra del borgo, dove c’è ancora un’edicola con una Pietà, un cortile pergolato e il pennone che reggeva l’insegna della locanda, ritrovai su una parete del magazzino (antica rimessa per carrozze dell’albergo) del signor Carloni, attuale proprietario dell’intero complesso, l’antica insegna a bandiera dal cui ferro traforato compare l’immagine di san Giorgio. Pertanto ritengo improbabile che Casanova, dopo aver lasciato l’Ospizio dei pellegrini di Loreto dove aveva richiesto il Chianti, pernottasse a Tolentino dove era giunto in carrozza; avrà sicuramente pernottato direttamente a Valcimarra. Comunque, per Giacomo Casanova quel viaggio fu un vero e proprio calvario. Infatti, dopo essere stato derubato con destrezza di sette zecchini d’oro all’osteria di Tolentino e addirittura molestato a Serravalle “da quel maledetto ubriacone e pederasta di uno sbirro”, finì a letto con una baldracca in una bicocca tra Serravalle e Colfiorito, forse nei dintorni di Taverne.
“L’indomani misi la mano nella tasca per pagare l’oste con le monete di rame, ma non trovai la mia borsa. Ci dovevano essere sette zecchini. Che disdetta! Ricordai di averla dimenticata sulla tavola dell’oste, a Tolentino, quando avevo preso uno zecchino per pagarlo. Che disgrazia! Accantonai subito l’idea di tornare sui miei passi per recuperare la borsa, che conteneva tutte le mie ricchezze. Era impossibile che chi se ne era impadronito me la rendesse, e non mi parve intelligente andare incontro ad una perdita certa per una speranza vana. Pagai l’oste, e con la morte nel cuore mi incamminai verso Serravalle. Ma a un’ora dall’arrivo, dopo cinque ore di marcia e una colazione a Muccia (forse all’Osteria del Cacciatore ndr), saltando un fosso misi un piede in fallo, e presi una storta così forte da non poter più camminare. Restai seduto al bordo del fosso senz’altra risorsa che la religione, offerta a coloro che si trovano in simili condizioni. Chiedevo a Dio la grazia di far passare qualcuno che mi soccorresse. Mezz’ora dopo passò un contadino che andava a comperare un asino, e per un paolo mi condusse a Serravalle. Mi restavano solo undici paoli di rame, e per farmi fare economia mi fece alloggiare presso un tipo dall’aspetto poco raccomandabile, che per due paoli pagati in anticipo mi accolse in casa sua. Chiesi un medico, ma mi fu mandato solo l’indomani. Mi coricai, dopo una pessima cena, su di un letto infame, dove tuttavia speravo di poter dormire. Ma era proprio là che il mio demone avverso mi attendeva per farmi soffrire le pene dell’inferno. Arrivarono tre uomini armati di carabine, tutt’altro che brave persone, che parlavano tra loro in un dialetto che non capivo, bestemmiando e facendo ogni tipo di rumore, senza il minimo rispetto per me. Dopo aver bevuto e cantato fino a mezzanotte, si sdraiarono su dei mucchi di paglia. Ma con mia grande sorpresa vidi il mio oste, completamente ubriaco e nudo, venire nel mio letto, e ridere quando gli dissi che non lo accettavo. Bestemmiando Dio, mi disse che neanche tutto l’inferno gli avrebbe impedito di dormire nel suo letto. Dovetti fargli posto, mentre esclamavo: «dove sono andato a finire?». A quelle parole mi rispose che mi trovavo dal più onesto sbirro di tutto lo Stato della Chiesa. Avrei potuto indovinare che mi sarei trovato tra quei maledetti nemici del genere umano? Ma non finì lì. Quel porco, non appena si fu sdraiato, più con le azioni che con la parola mi dichiarò il suo infame desiderio, in una maniera tale che dovetti dargli un colpo in petto, facendolo cadere di sotto dal letto. Lui riprese a bestemmiare, e si alzò, ritornando all’assalto senza intendere ragione. Allora mi alzai e mi andai a sedere su una sedia, ringraziando Dio che l’oste non me lo avesse impedito, e che avesse preso subito sonno. Passai sulla sedia quattro ore terribili. All’alba, sollecitato dai suoi compagni, il boia si alzò. Bevvero, e dopo aver ripreso le carabine, se ne andarono. In quello stato pietoso, passai un’ora a invocare l’aiuto di qualcuno. Infine arrivò un ragazzo, che per un baiocco andò a cercarmi un medico. Questi mi visitò e mi assicurò che in tre o quattro giorni di riposo mi sarei rimesso. Mi consigliò però di andare con lui in un albergo (forse l’Ospizio dei Pellegrini; ndr.), e io seguii volentieri il suo consiglio. Mi misi subito a letto, dove il medico si occupò di me. Feci lavare le mie camicie e fui trattato molto bene. Ero quasi costretto a sperare di non guarire, perché temevo che, nel momento in cui avrei dovuto pagare l’oste, avrei dovuto vendere la mia redingote, e me ne vergognavo. Pensavo che se non mi fossi preso a cuore la questione della ragazza alla quale padre Stefano aveva rifiutato l’assoluzione, non mi sarei trovato nella miseria. Mi sembrava di dover riconoscere di aver agito da capriccioso. Se avessi sopportato il frate… Se, se, se, e tutti i maledetti che avviliscono l’anima dei disgraziati che riflettono, e dopo aver ben riflettuto sono più disgraziati di prima! Tuttavia stavo imparando a vivere. L’uomo che non pensa, non impara mai nulla.
Il mattino del quarto giorno, come il medico mi aveva diagnosticato, mi sentii in grado di camminare, e mi determinai ad incaricare qualcuno di vendere la mia redingote. Era una triste necessità, anche perché cominciava il periodo delle piogge. Dovevo quindici paoli all’oste e quattro al chirurgo. Quando partii per andare a cercare l’uomo che mi avrebbe venduto la redingote, ecco apparire padre Stefano che rideva come un pazzo, domandandomi se avevo dimenticato la bastonata che mi aveva dato. Pregai allora il medico di lasciarmi solo col frate. Chiedo al lettore se è possibile assistere a cose simili, e conservare lo spirito esente dalla superstizione. Quello che stupisce è il tempismo, perché il frate arrivò proprio all’ultimo minuto, e quello che mi sconvolgeva di più era la Provvidenza, o la fortuna, o la ferrea combinazione delle circostanze volessero e mi costringessero a riporre le mie speranze in quel frate, che aveva cominciato ad essere il mio nume durante le mie disgrazie a Chioggia. Ma che razza di nume! Eppure quella combinazione la riconoscevo più come una punizione, che come una grazia. Quando vidi quello stupido, briccone, ignorante, dovetti consolarmi, perché non dubitai neanche per un momento che mi avrebbe tirato fuori dai guai. Fosse stato il cielo o l’inferno a mandarmelo, dovevo sottomettermi a lui. Era lui che mi doveva condurre a Roma: così aveva deciso il mio destino. La prima cosa che frate Stefano mi disse fu il proverbio «Chi va piano va sano». Aveva impiegato cinque giorni per il viaggio, che io avevo fatto in uno. Però lui stava bene, e non gli erano capitati contrattempi. Mi disse che era in cammino quando aveva saputo che l’abate, segretario dei memoriali dell’ambasciatore di Venezia, si trovava in un albergo, malato, dopo aver subito un furto a Valcimarra. «Sono venuto a farvi visita», mi disse, «e vi trovo in buona salute. Dimentichiamo tutto e andiamocene veloci a Roma. Per farvi contento camminerò per sei miglia al giorno». «Non posso: ho perduto la mia borsa, e devo venti paoli». «Vado a cercarveli in nome di san Francesco». Tornò un’ora dopo con quel maledetto sbirro ubriacone, sodomita, che mi disse che se gli avessi detto chi ero, mi avrebbe tenuto per sempre da lui. «Ti do quaranta paoli», mi disse, «se mi fai avere la protezione del tuo ambasciatore. Ma a Roma, se non ci sarai riuscito, me li renderai. Devi firmarmi una ricevuta». «D’accordo». In un quarto d’ora tutto fu sistemato; ricevetti quaranta paoli, con i quali pagai i debiti, e ripartii con il frate. Un’ora dopo mezzogiorno, il frate mi disse che Colfiorito era molto lontano, e che avremmo potuto passare la notte in una casa che mi indicò, a duecento passi dalla strada. Era una bicocca, e gli dissi che ci saremmo trovati male, ma le mie rimostranze furono inutili: dovetti ancora sottomettermi alla sua volontà. Ci andammo, e trovammo un vecchio decrepito sdraiato su un letto, con continui attacchi di tosse; due donne, piuttosto brutte, di trenta o quarant’anni, e tre bambini completamente nudi, una vacca e un maledetto cane che non faceva che abbaiare. La miseria era evidente, ma quel mostro, invece di fare loro l’elemosina e andarsene, chiese da cena, in nome di san Francesco. «Bisogna», disse il vecchio moribondo alle donne, «cuocere il pollo, e prendere la bottiglia che conservo da vent’anni». In quel momento la tosse lo prese così insistentemente che credetti che ne morisse. Il frate gli promise che san Francesco lo avrebbe fatto ringiovanire. Volevo andarmene a Colfiorito da solo e aspettarlo lì, ma le donne si opposero, e il cane mi azzannò il vestito con dei denti che mi fecero paura. Dovetti restare. Dopo quattro ore di cottura il pollo era ancora duro. Stappai la bottiglia, e mi accorsi che il vino era diventato aceto. Persi la pazienza e afferrai il batticulo del frate, dal quale tirai fuori di che mangiare e bere per tutti quanti. Le due donne furono felicissime di vedere tutte quelle cose buone. Dopo aver mangiato bene, ci fecero due grandi letti di paglia, e ci coricammo al buio perché non c’erano né candele né olio. Dopo cinque minuti, proprio nel momento in cui il frate mi diceva che una donna si era infilata nel suo letto, ne sentii un’altra nel mio. La sfrontata si mise all’opera, e tirò avanti malgrado le mie decise proteste. Le grida che il frate faceva mentre cercava di difendersi rendevano quella scena così comica che non riuscii ad andare veramente in collera con la mia donna. Quel pazzo invocava urlando san Francesco in suo soccorso, non potendo contare sul mio aiuto. Io ero più imbarazzato di lui, perché, quando tentai di alzarmi, il cane mi spaventò venendo da me. Il cane, infatti, faceva la spola tra il mio letto e quello del frate, e dal suo letto tornava al mio, come fosse d’accordo con le baldracche, e ci impedisse di difendercene. Gridammo in cerca d’aiuto, ma invano, perché la casa era isolata. I bambini dormivano, e il vecchio tossiva. Non mi potevo salvare, e la baldracca mi disse che se ne sarebbe andata se solo fossi stato un po’ compiacente. Allora la lasciai fare. Pensai che chi aveva detto sublata lucerna nullum discrimen inter mulieres aveva ragione. Ma senza amore quel grande affare è privo di gusto. Frate Stefano invece non si arrese: difeso dal suo stesso abito, riuscì a evitare il cane, si alzò e afferrò il bastone. Poi cominciò a correre per la stanza menando colpi a destra e a manca, nella totale oscurità. Sentii la voce di una donna gridare: «Ah! Mio Dio!», e il frate dire: «L’ho accoppata!». Credetti che avesse ammazzato anche il cane, perché non lo sentivo più, e magari anche il vecchio, che aveva smesso di tossire. Padre Stefano, infine, venne a coricarsi nel mio letto, tenendo sempre vicino il bastone, e dormimmo fino a giorno fatto. Mi vestii velocemente, sorpreso di non vedere più le due donne e spaventato di vedere che il vecchio non dava più segni di vita. Feci notare a frate Stefano un livido sulla tempia del morto: per tutta risposta mi disse che non l’aveva ucciso apposta. S’infuriò invece quando trovò vuoto il suo batticulo, mentre, invece, io ne fui confortato. Infatti, non trovando più le due carogne, avevo creduto che fossero andate a chiedere aiuto, e che avremmo avuto dei grossi problemi. Ma quando vidi il batticulo vuoto, capii che se ne erano andate per non doverci rendere conto del furto. Sollecitai frate Stefano a partire, descrivendogli i pericoli ai quali andavamo incontro se restavamo. Sul cammino, incontrammo un vetturino che andava a Foligno, e persuasi fra Stefano a sfruttare quell’occasione per allontanarci di là”.
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Caro Gabor, molto bello il testo, tra paradosso e cronaca di viaggio. Il colore mi ricorda Il Novellino del Sacchetti.
Caro Guido,
solo un raffinato intellettuale nonché vecchio goliarda quale tu sei poteva scovare nella mia modesta narrazione una certa influenza di Franco Sacchetti, che Casanova richiama in qualche maniera nella sua riflessione citando Erasmo da Rotterdam: «sublata lucerna nullum discrimen inter mulieres» (A lume spento tutte le femmine sono uguali).
Inoltre ritengo che i paradossi moralistici del Sacchetti si possono intersecare con una certa attualità con la vita spericolata del grande seduttore veneziano e non solo. Penso ai fantastici “Bunga bunga” a base di punch di Casanova e penso anche che la Novella XC potrebbe essere ora ambientata in quel di Casette d’Ete (Un calzolaio da San Ginegio tratta di tòrre la terra a messer Ridolfo da Camerino, al quale essendo venuto agli orecchi, con belle parole lo fa ricredente del suo errore, e perdonagli).
Tuttavia non ti nascondo che ora, soltanto ora mi sono accorto che avrei potuto chiudere il pezzo con l’ultima strofa de “Il frate di Certosa”:
La morale della storia:
anche i frati fan baldoria
Sì, ma…religiosamente…
“… io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso, mi proposi di scrivere la presente opera e raccogliere tutte quelle novelle, le quali, e antiche e moderne, di diverse maniere sono state per li tempi, e alcune ancora che io vidi e fui presente, e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute.
E non è da maravigliare se la maggior parte delle dette novelle sono fiorentine… che a quelle sono stato prossima… e se non al fatto piú presso a la… e perché in esse si tratterà di… condizioni di genti, come di… marchesi e conti e cavalieri, e di… grandi e piccoli, e cosí di grandi donne, mezzane e minori, e d’ogni altra generazione; nientedimeno nelle magnifiche e virtuose opere seranno specificati i nomi di quelli tali; nelle misere e vituperose, dove elle toccassino in uomini di grande affare o stato, per lo migliore li nomi loro si taceranno; pigliando esempio dal vulgare poeta fiorentino Dante, che quando avea a trattare di virtú e di lode altrui, parlava egli, e quando avea a dire e’ vizii e biasimare altrui, lo faceva dire alli spiriti.” (Franco Sacchetti – Il trecentonovelle 1399 – Proemio)
Enossam: stupenda citazione.
NOVELLA CXXIX
Marabotto da Macerata con una nuova lettera, richieggendo di battaglia un gran Tedesco, libera per piú mesi la sua patria che non è cavalcata.
Al tempo che la Chiesa di Roma perdeo la Marca d’Ancona, fu un uomo che si chiamava Marabotto da Macerata ed era grandissimo di persona; ed essendo guerra nella detta Marca, uno Todesco, che avea nome Sciversmars, era al soldo della Chiesa, e la stanza sua era a Monte Fano. Facendo gran guerra il detto Tedesco a Macerata, lo detto Marabotto andò alli Priori di Macerata, e domandò licenza, che volea mandare una lettera allo detto Sciversmars, a richiederlo di battaglia, e per li Priori gli fu conceduta. Lo detto Marabotto scrisse la lettera in questa forma: “A voi, nobile uomo Sciversmars della Magna, Marabotto della Valle d’Ebron vi saluta. Ho udito dire della vostra nobilità, e che voi sete un buon uomo d’arme, e che a queste contrade avete fatto grandissima guerra contr’a’ villani; e io sono venuto dalle mia contrade con settecento cavalli per trovare di buoni uomini d’armi, e provare la mia persona con loro, e non con li villani. E perciò vi prego che vi vogliate provar con meco su nel campo, solo, ed eleggere il campo dove vi piace, che mi pare mill’anni che io vi sia; e se non volessi combattere solo con meco a corpo a corpo, pigliate de’ vostri quel numero che vi piace di venire, e io verrò con altrettanti; e ancora vi farò vantaggio, che la mia brigata serà meno dieci che la vostra per ogni cento combattitori. E questo vi priego quanto posso che facciate, e non vogliate provar la vostra gentilezza co’ villani, ma con buoni uomeni d’arme. E di questo vi piaccia subito per vostra lettera farmi risposta, ecc., e da mo innanzi per questo terreno non venire, perciò che io vi tratteria come inimico mortale”.
Avendo Sciversmars la detta lettera, e udendo il nome maraviglioso di chi la mandava, e ch’egli era della Valle d’Ebron, tutto invilí, immaginando costui non dover esser altro che gran fatto; e mai non iscrisse, né fece risposta. E per questa cosí fatta lettera impaurito, piú mesi stette che non fece guerra, né cavalcò sul terreno di Macerata, solo per paura del detto Marabotto.
Questa di questo Marabotto fu sottile inventiva, che con un poco d’inchiostro cacciò il nemico della sua terra, e valse quella lettera assai piú a Macerata che non serebbono valuti trecento uomeni a cavallo.
@ enossam
@ Guido Garufi
Le novelle del Sacchetti ambientate nel nostro territorio sembrano straordinariamente attuali. Certo che il Sacchetti sputtanava continuamente Rodolfo Varano e tutti gli altri saltafossi della Marca per aver tradito la Lega fiorentina passando con la guelfa Chiesa. Ecco il perché dei tanti paradossi, eufemismi erotici, dileggi e dabbenaggine dei personaggi:
NOVELLA CXVI
Prete Juccio della Marca è accusato allo Inquisitore per le sue cose lascivie, ed essendo dinanzi a lui, gli dà di piglio a’ granelli in forma che mai non li lasciò, che lo prosciolse.
E’ mi conviene pur tornare nella Marca, però che di piacevoli uomeni sempre è stata piena. Fu nella terra di Montecchio (Treja Ndr) già un prete, il quale avea nome prete Juccio, il quale era cattivo in ogni crimine di lussuria; e per questo, purch’egli avesse possuto contentare le sue volontà, ogni affezione vi mettea, come se nel Vangelo per la bocca di Cristo gli fosse comandato; e sempre avea per usanza d’andare sanza panni di gamba. Avvenne per caso che, arrivando nella detta terra uno Inquisitore dell’ordine di Santo Francesco, questo prete Juccio li fu accusato de’ suoi cattivi costumi; e fra l’altre cose, fu detto allo Inquisitore che elli non portava panni di gamba:
– E questo, venendo a voi, il potrete fare vedere, e seretene certo; e secondo li vostri decreti senza brache non si puote cantar messa, ed elli la canta tutto dí.
Udito l’Inquisitore gli accusatori, fece richiedere prete Juccio, il quale di presente comparí. Come lo Inquisitore il vide, disse:
– Fatti in cià ad escusarti d’una inquisizione.
E quelli accostasi a lui. Dice l’Inquisitore:
– Èmmi detto che ci vai sanza brache.
Dice prete Juccio:
– Signor mio, egli è vero, che per questi caldi non le posso portare.
Dice lo Inquisitore:
– Anzi ci vai senz’esse, per esser piú presto alli stimoli della lussuria.
– Come che sia, io sono a’ vostri comandamenti.
Dice lo Inquisitore:
– Se’ tu prete Juccio, il quale fai tante cattivanze?
E quelli rispose:
– Non fe’ mai niuna cattività.
E detto questo, dà di piglio alli testicoli con l’altre appartinenze dello Inquisitore, e dice:
– Perché tenete voi questo pascipeco? questo è quello che va facendo le cattivanze, e contra li comandamenti di Dio -; e tirando quanto potea, dicendo: – Mai non ti lascerò il tuo pascipeco, se tu non mi prosciogli d’ogni cosa che lo mio pascipeco ha fatto.
E tanto tirò che lo Inquisitore per forza l’assolveo della formata inquisizione. E partendosi il detto Inquisitore, prete Juccio ringraziò il pascipeco dello Inquisitore, lo quale l’avea assoluto de’ suoi peccati, dicendo quel verso delle letane: Propitius esto, parce nobis domine . E cosí per nuovo modo fu deliberato prete Juccio; e l’Inquisitore se n’andò con la borsa e col pascipeco molto ristretto e forte indolinzito, in forma ch’andando a cavallo, dalla sella era molestato piú che non averebbe voluto.
E cosí questi cherici marchigiani, andando sbracati, sono sí fieri, che ogni persona fanno venire a ubbidienza, se non s’abbattessino a messer Dolcibene, che gli sapea capponare.