di Gabor Bonifazi
A Macerata era costume dei tempi andati fare passeggiate fuori porta, quando ancora ci si muoveva a piedi e non c’erano l’automobile, la roulotte, il camper, la casa in campagna, quella al mare, quella in montagna, non esisteva quella strana parola week-end e soprattutto non c’era ancora quell’effimero originato dalle scienze della comunicazione e della formazione. Le mete preferite erano Le Vergini, Sforzacosta, Piediripa, Villa Potenza, Madonna del Monte e Collevario. E proprio qui a Collevario si apriva la stagione delle passeggiate e delle merennette, per via che la festa della Madonna del Rosario cadeva il lunedì di Pasqua. C’erano la corsa campestre, la rottura delle pigne e tante altre competizioni popolari tipo giochi senza frontiere, sapientemente organizzate dal festaiolo di turno che di solito era un contadì grossu, almeno per chi era piccolo. Naturalmente c’era il vino buono e le durissime ciambelle di Pasqua. Poi veniva il periodo che si doveva piantare maggio, un eufemismo chiaramente a sfondo erotico che ancora non ho capito appieno, ma sicuramente doveva essere un rituale intimamente legato all’amore. Negli anni Cinquanta molti maceratesi erano fortunati se potevano trascorrere il Ferragosto lungo le rive del Chienti o del Potenza, allora luoghi di lavoro delle lavandare. Una tegghia de swincisgrassi, un’altra di pollo e patate arrosto e un cocomero tassellato al rhum era il massimo del ghiotto. La meta preferita delle allegre compagnie doveva essere proprio lu spaccittu dove si consumavano le merende a base di ciabuscolo, salame, fava e formaggio.
C’era lu spaccittu de Chiavari, de Fusari, de Nino e alla Cimarella quello de Jennà. Chiavari in contrada Le Vergini e quello di Fusari in via Bramante sono scomparsi e Nino è risuscitato ne “Lu Spaccittu”. Sono sopravvissuti all’incuria del tempo solo quello di Jennà, dal nome del proprietario che lo aprì nel 1952, in contrada Cimarella, dove la mancina Anna Fabiani fino alla fine del 2008 affettava prosciutti con il lungo coltello dalla lama sottile come se stesse suonando il violino, e quello di Coloso, in attività dal 1927 a Madonna del Monte tenuto aperto con tanta passione dalla simpatica Jolanda Lattanzi. E così, mentre inseguiamo pervicacemente suggestioni di un piccolo mondo scomparso nell’atmosfera delle effimere osterie delle varie rievocazioni in costume e nei mercatini dove è ancora possibile acquistare mortai di pietra, macinini “Tre Spade” e vecchie bilance Berkel, stiamo perdendo le ultime botteghe caratteristiche: gli spacci di campagna. Luoghi di un certo valore sociale che per tanto tempo hanno rappresentato un punto d’incontro tra domanda e offerta di prodotti alimentari spesso barattati con i prodotti della terra. Gli spacci e i negozi di prodotti alimentari vanno valorizzati prima che finiscano nelle anguste mura del solito museo tipologico. Si può recuperare un vecchio bancone coi cassettoni per la pasta, come pure una bilancia del sale o una rossa affettatrice a mano, ma non certo le sensazioni e la gestualità del commerciante. Come dire commerciante e porco pesalo dopo morto. Infatti sarà molto difficile inserire in un’ambientazione di maniera l’odore particolare che emanavano i negozi di generi alimentari. Sarà pure difficile rievocare la gestualità dell’alimentarista nel confezionare un etto di conserva con la carta oleata, mentre con la carta paglia e con la carta azzurrina si incartavano rispettivamente la farina e lo zucchero, scaricati pazientemente con la sessola sulla traballante bilancia.
Ai tempi della vendita al minuto tutto era regolarmente sfuso, anche quel libricino nero coi bordi rossi dove i più segnavano le proprie spese che regolarmente saldavano a fine mese. Chi non ricorda quel libricino con l’elastico e tutte le altre magiche operazioni per preparare un panino farcito con la crema Alba! Comunque più ci si allontana dalle periferie disurbanizzate, dai vari discount e centri commerciali avvicinandosi verso la montagna, e più si possono trovare ancora piccoli punti di ristoro dove poter trovare un po’ di quella umanità in via d’estinzione. A Valcimarra di Caldarola sopravvive Lorenza, la decana degli spacci drive-in. Peccato che una decina di anni fa chiuse lo spaccio sotto Rocca Varano, quello della Sfercia. Altro spaccio, un po’ autogrill, perché fino a qualche anno fa c’era anche il distributore di carburanti, si trova a Piè Casavecchia di Pieve Torina ed è gestito dalla famiglia Pompei; qui, sotto il pergolato, si poteva incontrare anche lo speleologo Montalbini in libera uscita dal Monte Bove. Poi, un po’ più avanti, sempre lungo la strada per Visso, a Villa Sant’Antonio c’è la caratteristica salsamenteria dei Cappa. A Monte Cavallo c’è un’altro punto di sosta molto variopinto, quasi un vero emporio dove c’è di tutto (tabacchi, bar, alimentari, macelleria e cantina stracolma di salami), gestito con tanta passione dal norcino Testiccioli. Naturalmente per valorizzare questi punti di ritrovo si potrebbe fare una guida degli spacci della nostra provincia, visti come luoghi caratteristici destinati alla vendita di monopoli e non solo, ma spesso sperduti nelle località montane come il Bar Giada in contrada San Lorenzo di Treja o l’Euro Bar in contrada Canepina di Camerino.
All’elenco vanno aggiunti due esercizi commerciali recentemente scoperti lungo la SP 126, la strada che collega Tolentino a San Ginesio, nella frazione Paterno (denominazione sincopata di Padre Eterno). Trattasi dello Spaccio Ciamarra, composto da due locali, alimentari/ bazar e bar, divisi da un vano scala e ricavati al piano terra di un classico edificio “casa e bottega”, costruito nel 1950 ca. Jole Ciamarra gestisce l’attività che rilevò dopo aver lavorato a Parigi. Il marito Quintilio (classe 1937) esercita ancora il mestiere di muratore con un certo estro, infatti ha disseminato i dintorni dell’edificio con modelli di costruzioni fantastiche: vari castelli e una torre Eiffel in ricordo del suo passato di emigrante, denominando questa poetica installazione “L’angolo della fantasia”. Tra le varie curiosità all’interno del bar segnaliamo una bacheca coi chiodi provenienti dallo smontaggio del tetto di Palazzo Sangallo. Un po’ più in alto, un po’ più in là, nella frazione Regnano, c’è lo Spaccio Ciarlantini, un locale caratteristico con raro bancone con cassettoni per la pasta degli anni Cinquanta del ‘900 e vecchia affettatrice. Il classico emporio con un po’ di tutto e un po’ di niente: alimentari, bar, tabacchi, cabina telefonica, pergolato e tanto di pompa di benzina.
Questi spacci di campagna potrebbero presto fregiarsi della “Fojetta”, il simpatico logo che segnalerà le Osterie storiche delle Marche come stabilito dalla LR 5/2011: “Interventi regionali per il sostegno e la promozione di osterie, locande, taverne, botteghe e spacci di campagna”. Tuttavia in Regione si continua a cincischiare inspiegabilmente sul regolamento, domande, schede di rilevamento e delibere, il che impedisce a questi ultimi locali commerciali di poter beneficiare, prima che sia troppo tardi, di un segno distintivo e di eventuali contributi per l’adeguamento degli impianti e per il rinnovo degli arredi. Il censimento delle osterie storiche potrebbe essere gestito dalla Provincia.
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.. aggiungo un mio ricordo di quando entravo in questi spaccitti: ero molto piccolo ma non posso scordare che al momento del conto il gestore prendeva il lapis (ma babbo quella è una matita!), parcheggiato sopra l’orecchio, e scrivendo sulla carta paglia ad un certo punto diceva 6+7+3+5…. 21.. 1 a ver 2…
quell’ “a ver due” non meglio identificato ancora mi risuona nella mente..
Ora, so benissimo che la società è in continuo movimento, che le cose cambiano e sicuramente questo è un bene, ma con questi suoi articoli (meraviglioso quello sul Giardinetto), mi fa sentire addirittura il “profumo” di quel tempo..
di questo e per questo la ringrazio, caro dottor Bonifazi
@ Alcibiade
ho trovato fantastico il suo ricordo del salumiere con il lapis all’orecchio che a sua volta sembrava essere uscito dalle pagine del sussidiario relative alle equivalenze. Naturalmente “aver due” era il numero da riportare nel conteggio della colonna successiva. Più complicata era la prova del nove.
Un discorso a parte meritano le cantine dentro le mura di Macerata. Forse non tutti sanno che, dove è ora il ristorante da Secondo, c’era la Cantina de Neno de Vernacchia, dove spesso un tale chiamato Bistecca cucinava i gatti. In via Armaroli c’era la Cantina de Antò de Froscià dove passo Garibaldi, mentre la mitica Cantina de Cicciò doveva trovarsi nel cortile di Palazzo de Vico. La Cantina di Gironella, poi Pizzangrillu e ancora Chiappa Aguzza, stava in via Crescimbeni. C’erano poi le cantine di Ferri, de lu Sicilianu, de Baffò, de Santì de Cardella e il Cantinone con ingresso sia da via Costa che da vicolo Consalvi. In corso Cairoli c’era la Cantina de li Vò-vò (1944-1987). Sempre da quelle parti c’era l’Osteria del Buon Gusto detta anche del Coraggio e gestita da un tale soprannominato Lampadina. Ritorniamo all’Osteria dei Fiori e alle cantine in piazza Mazzini: quella di Rigo Bacalò e quella d’Albino Moretti detto l’Americano. Vicino alla fontanella della Cocolla c’era la cantina de Morosì. E l’elenco potrebbe continuare ancora con le cantine padronali che erano i punti di mescita di tutte le famiglie nobili.
Dallo spaccio alla cantina all’osteria si passa alle ben più selettive Società: Il Giardinetto, La Borghigiana, La San Giuliano e I Cacciatori.
Naturalmente, questo mondo scomparso era ricco di personaggi sanguigni: Peppe lu chitarrà, Cipollò, Tre palle e un soldo (lu callarà de Force), l’ambulante Nicchiu, Battilosse, Faustì, il lustrascarpe Ottochicchi, il calzolaio lu Smaniottu, lu Cioppu de lu Callarà, Carlacchià, Cococciò, Benedetto lu bilancià, il marmista Adriano detto Pocaciccia, Panzì, il muratore Rapanì, il falegname soprannominato a seconda delle circostanze Scroficchiò per via del forte appetito o lu Vellu per ovvi motivi legati all’aspetto estetico, Peppe della Timo, Antò de li porci e tanti altri campioni d’umanità.
In queste cantine, osterie, bettole, taverne, spacci, locande e società c’era sempre l’oste della malora e il passatempo preferito degli avventori, oltre ai tradizionali giochi di carte con passatella, era la morra. Inoltre, quando il tempo lo permetteva, si faceva: se ne venga l’oste, la ruzzola e il salto della quaglia, o saltamuletto che pian piano spingeva a camminare da Macerata fino a Coloso, lu spacciu della Madonna del Monte.
Caro Gabor, ancora complimenti per questo tuo secondo intervento. Una curiosità: puoi dirci qualcosa in più sul logo regionale? Voglio dire, è solo un riconoscimento ( dovuto, io credo) o anche, come spero, qualcosa che “garantisca” la resistenza\esistenza di queste piccole e civilissime aggregazioni, o piccoli fari nel mare sterminato ( e bellissmo) della nostra campagna? Ti ringrazio, Guido
Caro Guido,
la fojetta al centro di un cartello a bandiera (tipo il disco della Timo o il PT delle poste, o la T dei tabacchi) e/o di una vetrofania dovrebbe servire ad indicare l’identità di un luogo di ospitalità e garanzia della presenza di alcuni prodotti tipici: http://www.ilrestodelcarlino.it/ancona/cronaca/2011/02/25/465142-fojetta_identificare_osterie.shtml
A quanto mi risulta i grafici della Regione stanno lavorando ad un bozzetto grafico di forma ovale dove sarà scritto anche “OSTERIA STORICA DELLE MARCHE”.
Nel mio disordinato girovagare attraverso le frazioni più sperdute della Provincia, alla disperata ricerca di tracce delle antiche stazioni di posta e soprattutto dell’ultima osteria da documentare, sperando di incontrarci un oste disposto a bere e raccontare, in questo vagabondare solitario mi è stato di grande compagnia un oggetto piccolo e un po’ vintage, un contenitore trasparente con cui poter sbicchierare: la fojetta. Questa “ampollina” l’ho sostituita al cucchiaio usato dall’architetto Ernesto Nathan Rogers (1909 – 1969) in quello slogan coniato e lanciato alla metà degli anni Cinquanta: dal cucchiaio alla città. Il motto stava a significare appunto un vincolo indissolubile tra architettura e design. Nell’editoriale del primo numero della sua direzione a «Casabella-Continuità» nel gennaio 1954, Rogers scriveva: «Noi crediamo nel fecondo ciclo uomo-architettura-uomo e vogliamo rappresentarne il drammatico svolgimento: le crisi; le poche indispensabili certezze e i molti dubbi, ancor più necessari…».
Ora possiamo riprendere la narrazione della poetica misura del mezzo litro di vino parafrasando lo slogan dell’architetto del gruppo Bbpr come omaggio alla seguente maniera: “dalla fojetta alla città”.
Nella storia di questa meravigliosa caraffa o bricco a forma di foglia, dalla quale prende il nome un locale di Recanati e che viene esposta come trofeo nelle mensole della Trattoria Polverò di Sarnano e del Circolo del Gallo di Morico, nell’invenzione di questo oggetto di pre-design c’è dietro l’esigenza di non fare il collarino voluta da un grande papa marchigiano: Sisto V. Non a caso la principale frode dell’oste stava nel recipiente utilizzato per mescere e nell’allungare il vino con l’acqua. Anche mia madre, quando abitavamo in via della Pace, mi mandava da Peppe Lapponi detto “Birillo” ad acquistare il vino dicendo: «non te fa fa lu collarì». Più tardi mi accorsi che il divieto fecere collarictum era previsto dagli Statuti comunali.
Insieme alla misura piombata da ½ litro chiamata fojetta nascono i multipli e i sottomultipli: er Barzilai da 2 litri, il tubo da 1 litro, il quartino da ¼ di litro, il chirichetto da 1/5 di litro e il sospiro da 1/10 di litro. Comunque l’oggetto più bello d’osteria rimane la fojetta con quelle ditate stampate sul collo da chi la stringe, quasi a volerla strizzare per far uscire l’ultima goccia di vino. E se a Recanati c’è il locale “la fojetta”, a Treja l’oggetto cult è utilizzato religiosamente e con tanto di collarino dal marchese Gianfranco Luzi nel suo rustico e un po’ demodè “Vecchio Granaio”. Anche Faustino, il simpatico titolare di Valleverde, un ristorantino sulle sponde del lago di Caccamo, travasa aspirando con un caucciù da piccole damigiane un vino dalle origini incerte, nelle diverse misure vintage che arredano la tavola e allietano le ultime allegre brigate
La fojetta, il caratteristico contenitore da mezzo litro di vino, potrebbe essere utilizzata come logo nell’insegna del Locale storico delle Marche. Basterà prevederlo nel regolamento della legge regionale sulla valorizzazione di osterie, locali e spacci di campagna, approvata anche nella seconda commissione dell’Assemblea legislativa, in considerazione che non c’è oggetto più identitario di questa straordinaria misura di vino.
Ora, quasi per incanto, la fojetta è riapparsa in oro, come un graal, al Grand Palais di Parigi dove Bulgari ha pensato bene di esporre tra i tanti oggetti preziosi anche due misure di vino realizzate nel 1972. Insomma tutto ciò che scompare o viene fatto scomparire prima o poi riappare con la sua storia quotidiana. Quella della povera gente.
@Gabor:
nell’elenco delle cantine forse va anche aggiunta quella de Sitti’, tal Settimio (Ciccarelli) nel vicolo che costeggia l’ex UpIM. Io ho un ricordo sbiadito, tanto ero piccino quando ci capitai andando a trovare mia zia Giuliana che lavorava li….
Quello che ricordo distinatamente erano due grandi anfore vicine ad un lavello di pietra, coperte da due “spare” a difesa di moscerini ed altri insetti, ma in maniera tale che il vino respirava….
Da queste anfore veniva spillato il vino, con maestria ( non ne andava persa nemmeno una goccia) e ricordo le fojette, ma anche un ordinativo” Un quartu e na gazzosa”, servito con noccioline americane, le “nucelle”…….
@ Serrani
è difficile fare giustizia in poche righe dei tanti luoghi dell’anima e dell’ospitalità. Tuttavia, nel ringraziarti del contributo e certo di far cosa gradita, ti comunico che quella di Settì è riportata nel seguente “Repertorio delle osterie e/o cantine di Macerata”:
-> Cantina di Achille Calidoni, in via IV Novembre, già via della Vetreria;
-> Cantina Antonio Galassi detto Antò de Froscià († 1940 ca.). Una leggenda popolare vuole che in questo locale pulito e famoso per il vino cotto sia andato a dissetarsi Giuseppe Garibaldi, in via Armaroli, 53;
-> Cantina d’Agnilittu (Angeletti), in via Roma;
-> Cantina dell’Americano (Albino Nardi), in piazza Mazzini. Mastrocola, un arguto falegname,
ricordava un locale pulito con cucina e vino di produzione propria e arredato con tavoli di
ciliegio. Nel 1952 la cantina fu rilevata da Castellani;
-> Cantina d’Argentina Antonelli, la madre di Flavio detto Frusci, in via Pace (Prima casa nuova);
-> Cantina di Ascenza , corso Cairoli;
-> Cantina dell’Avvocato (Raniero Zucconi), poi Ferri, il cui figlio Silvano la trasformò in
apprezzata Trattoria da Silvano, in piaggia della Torre;
-> Cantina de Baffò, in via S. M. della Porta;
-> Cantinò, in vicolo Consalvi;
-> Cantina Carpera, ora Bar del Porco, era in contrada Helvia Recina, 54 (Villa Potenza);
-> Cantina Carradori (oste Armando Minnozzi), nella frazione Piediripa;
-> Cantina de Cicciò o de Morosì (Costantino Artesi), si narra che il proprietario morì facendo
l’amore. Locale dal basso soffitto voltato e grande camino. Il vino era di produzione propria, in
via S. M. della Porta;
-> Cantina di Cipollò (Castellani), specialità spuntature, in borgo San Giuliano;
-> Cantina di Contadì de Murittu , corso Cairoli;
-> Cantina di Felicetta de Mondoru , corso Cairoli;
-> Cantina de Ficu, nella frazione Sforzacosta;
-> Cantina di Filpo Ciccarelli, in contrada Helvia Recina (Villa Potenza);
-> Cantina de lu Formettà (Mancini), luogo frequentato dai carrettieri, in corso Cavour;
-> Cantina de lu Fornà (Ferri), merende e vino buono, in via Illuminati;
-> Cantina di Gasparò , corso Cairoli;
-> Cantina di Gironella, poi Pizzangrillu, poi Natali Ezio, in via Crescimbeni, 80.
Nel 1957 venne aperta sull’altro lato, in via Crescimbeni, 65 con il nome «Trattoria da Ezio» ;
-> Cantina di Irma di Sgalla, nella frazione Sforzacosta;
-> Cantina de lu Gobbu († 1963 ca.), ora sede della Società San Giuliano, in via Gioberti;
-> Cantina di Gustì Jescià (Augusto Iesari), aperta da lu Vò-vò: camino, merende e cucina
autonoma in vicolo Orfanelli;
-> Cantina di Marò , corso Cairoli;
-> Cantina de Mansaccoccia (Branciari), nei pressi della Stazione ferroviaria di Piediripa;
-> Cantina di Marconi, in piaggia della Torre;
-> Cantina della Mazzarantana, la licenza fu rilevata dai Torquati, nella frazione Piediripa;
-> Cantina di Mena, in borgo Peranzoni (Villa Potenza);
-> Cantina di Nannina de Mondappuna , corso Cairoli;
-> Cantina de Neno de Vernacchia, cucinava Giorgia. Nel 1952 l’esercizio venne rilevato da
Secondo Moretti che lo trasformò in un apprezzato ristorante che ancora porta il suo nome “da
Secondo”, in via Pescheria vecchia;
-> Cantina di Pasquà Principi detto il Bersagliere, poi Bar Gallo, in piazza Santa Croce;
-> Cantina di Peppe d’Agnilittu, c’era lo spaccio e si giocava a morra, in via Pace (casa vecchia);
-> Cantina de Peppò (Giuseppe Paolorossi), ostessa la Mora, pavimento in tavolato, cucinetta e
vino tristo, in vicolo Torri;
-> Cantina di Pietrella, in via Troili (Villa Potenza);
-> Cantina di Pinella, nella frazione Sforzacosta;
-> Cantina di Pitì (1966 – 1974), in borgo Peranzoni (Villa Potenza);
-> Cantina di Rigo Bacalò (Enrico Bracaloni), poi Ilio Moretti. Mastrocola ricordava 3 o 4 tavoli
intorno ai quali sedersi per far merenda, vino mediocre e tanta ignoranza, in piazza Mazzini;
-> Cantina de Rigo († 1970), era gestita da Bianchina, merende, cucina bella e pulita, specialità:
trippa, tagliatelle e cucciole, in via dei Velini;
-> Cantina di Santì de Cardella, in via Crispi;
-> Cantina de lu Scunnitu (Patrassi), luogo per merende e con cucina: specialità la trippa, in piazza
Annessione;
-> Cantina Settembri, in borgo San Giuliano;
-> Cantina di Settì (Settimio Ciccarelli), Viola cucinava la trippa, poi venne rilevata da Ferri, in
vicolo Ferrari;
-> Cantina di Stacchio (1920 – 1960), venne aperta da Lisà Romagnoli al ritorno dall’America. Nel
1933 si fece una Società tra Stacchio e Romagnoli. Nel 1951 fu restaurata e installata una
macchina di caffé. Nel 1960 fu spostata nell’altro lato della piazzetta per far posto al Bar Jolly.
L’attività principale consisteva nella mescita di vino, c’era un caminetto e si cucinava nelle feste
tradizionali quali San Martino, in largo Affede, 4;
-> Cantina de lu Sicilianu (1960), specialità: vino cotto, in vicolo Monachesi;
-> Cantina di Teta, in borgo Peranzoni (Villa Potenza);
-> Cantina di Tosca de Cicciò, nel cortile di Palazzo De Vico;
-> Cantina de la Toscana, specialità: vino cotto e moscato, in via della Vetreria;
-> Cantina di Vecchietti, in vicolo Ferrari;
-> Cantina de li Vò-vò (1944 – 1987), vino Filippi e ignoranza tanta in corso Cairoli;
-> Cantina de Virillu (Giuseppe Lapponi), (1936 – 1956), in via Zorli;
-> Locanda La Lanterna, locale atipico in voga negli anni Sessanta gestito da Nazareno Crispiani.
Ora Osteria dei Pigliapochi, in vicolo della Rota, 8;
-> Osteria di Chiarina de Pieraviocca , poi del Coraggio (Umberto Rita). Anticamente Cantina
de Velà, passata poi a lu Cioppu de Mozzoni, poi a Nicoletta ed infine Trattoria Stella, in corso
Cairoli;
-> Osteria dei Fiori. Anticamente era di un certo Marchionne detto Quindici e tocca. Nel 1959
venne riaperta da un siciliano o leccese. Nel 1960 venne rilevata da Vittorio Pallotto. Da alcuni
anni è stata acquistata dalla chef cocorum Iginia che l’ha trasformata in locale in;
-> Osteria di Vingè de Maru , corso Cairoli;
-> Spaccio de Jennà (1952 – 2008), dal giugno 2009 La Cimarella, in contrada omonima;
-> Spaccio di Chiavari, in contrada Le Vergini;
-> Spaccio di Coloso, (1927 – ), in contrada S. M. della Madonna del Monte, già Montefalcone;
-> Spaccio di Nino, ora Lu Spaccittu, in via Roma;
-> Tabaccheria Fabiani , in contrada Valle;
-> Tabaccheria Montedoro , in contrada Montanello;
-> Trattoria del Buon Gusto, era gestita da un tale detto Lampadina, per il fatto che il locale era
Buio. Cucinava un tale detto Pombè , in via Adriano Ariani, 4;
-> Trattoria il Giardinetto, locale pulito con caratteristica pergola e cucina all’ingresso, frequentato soprattutto da rappresentati, era nel cortile di piazza Nazzario Sauro.
E’ proprio vero che con la cultura non ci si mangia e non ci si beve..
Visto che in Regione “Stanno combattendo con la burocrazia dell’apparato regionale…..
– e ora, soltanto ora mi si chiede – una definizione giuridica o almeno di fatto del termine “osteria”. Come potrebbe essere definita una osteria? Cos’é una osteria? E cos’è lo spaccio di campagna? C’è qualche documento al quale attingere per tale definizione? Oppure bisogna rifarsi alla concezione comune?
Serve per ritarare legge e regolamento…..”
Perché non chiederlo al dirigente delle attività produttive o a uno dei presidenti delle cinque Camere di commercio?
Come già detto, al di là dei soliti luoghi comuni, delle solite guide gastronomiche e delle denominazioni di maniera, ritengo difficile la classificazione di osteria, anche perché l’attività commerciale di somministrazione di cibi e bevande è soggetta ad un’apposita licenza. Attualmente il bar, la pizzeria, il pub, la vineria, la trattoria e il ristorante rientrano nella categoria merceologica del Pubblico Esercizio, mentre il negozio di generi alimentari è un Esercizio Commerciale. Inoltre, il termine osteria continuamente scompare per poi riapparire secondo il costume dei tempi, come una madre fertile che continua a partorire figli: cantine, spacci di campagna, bar, caffè, pub, wine bar, trattorie, ristoranti, rosticcerie, pizzerie eccetera.
In ultima analisi si potrebbe sostenere che l’osteria si sia caratterizzata lungo le vie di comunicazione principalmente per la somministrazione dei cibi, mentre la cantina era per lo più situata nei bassifondi delle città e svolgeva prevalentemente la mescita di vino.
Si potrebbe altresì sostenere che l’osteria era considerata un’attività più complessa ed elegante della popolare e rozza cantina. Per cui è facile intuire che l’osteria si sia trasformata in trattoria prima e in ristorante poi; che la cantina, sempre a partire dalla seconda metà del secolo scorso, abbia originato bar e caffè (dalla barra per appoggiare i piedi che comunque doveva servire come barra di ricambio per i carri e le carrozze); che lo spaccio sia l’antenato del supermercato.
Comunque, l’osteria rimane il luogo dei nostri sogni e delle nostre paure. Un luogo dove trovare comprensione, cercare amicizia, un luogo dove poter ridere, giocare e stonare le stesse canzoni d’amore. Un locale d’atmosfera dove cercare tradizione e calore umano.
E’ singolare che hanno approvato una legge all’unanimità senza neanche capire l’oggetto della stessa!
La mancina Anna Fabiani, a pochi giorni dall’inaugurazione della nuova gestione de “lu spaccittu di Jennà”, mi chiamò dicendomi che “quillu architettu gionalista che vinia sempre qui una orda” voleva farci un’intervista. “Con tutto quello che dobbiamo fare in questi giorni, ce se mette pure quistu” pensai di primo acchitto, ma accettai di parlare con “quistu gionalista”!!!!
“Quillu giornalista” naturalmente eri tu Gabor, e ormai sono trascorsi due anni e mezzo da quella prima intervista, e tra provocazioni continue, complimenti non troppo sottolineati, io e Tony possiamo ritenerci realmente fortunati di averti incontrato. Grazie per il lavoro che stai facendo, ma soprattutto grazie per questi racconti che nella loro semplicità, sono fotografie scritte di un’epoca così vicina e così lontana, allo stesso tempo!!! Ciao Gabor, passa presto per un bianchetto!!!
Cara Simona,
chiedo venia per aver omesso la tua apertura:
“Il 27 giugno 2009 questo locale profondamente umano ha ritrovato una nuova vita come l’araba fenice, grazie alla nuova gestione di due giovani:.Simona al banco e Antonio ai fornelli. Una coppia entusiasta che propone ai clienti diversi piatti di cucina povera, prodotti di stagione e un banco alimentare ricolmo di prodotti biologici e pane cotto a legna. Il locale, ribattezzato La Cimarella, si rinnova anche con un servizio di prima colazione a base di dolci (maritozzi, ciambelloni ecc.) farciti con varie marmellate. Per quanto riguarda il pranzo, oltre alle tagliatelle, ai vincisgrassi, alle frittate varie e alle tradizionali merende a base di salumi e formaggi che verranno annaffiati dai vini della vicina fattoria dei Lucangeli, lo chef Antonio, essendo portoghese, propone in diverse varianti la specialità del suo paese: il baccalà. Quindi pur di sopravvivere, si è trasformato e adeguato alla moda dei tempi questo piccolo locale, che per oltre cinquant’anni ha rappresentato l’unico centro di vita sociale per gli abitanti della contrada Cimarella. Un vocabolo misterioso che secondo il professore Febo Allevi significava piccolo germoglio”.
Insomma ero all’inaugurazione, ricordo ancora a folla, e starò sempre dalla parte di chi come me ha stonato le canzoni di Lucio Battisti. In modo particolare dalla parte di chi come me ha canticchiato “un panino una birra e poi”