di Gabor Bonifazi
Nella nostra provincia il culto dei morti è particolarmente sentito. I cimiteri sono curati come dei piccoli giardini, con le lapidi e le tombe che si adeguano alle mode dei tempi. La storia inizia dopo la battaglia di Campoformio. Infatti l’editto di Saint Cloud, emanato nel 1804 da Napoleone, stabilì che le tombe venissero poste al di fuori delle mura cittadine, in luoghi soleggiati e arieggiati, e che fossero tutte uguali, solo con nome, cognome e date. Si voleva così evitare discriminazioni tra i morti. Per i defunti illustri, invece, era una commissione di magistrati a decidere se far scolpire sulla tomba un epitaffio. Questo editto aveva quindi due motivazioni alla base: una igienico-sanitaria e l’altra ideologico-politica. La maggior parte dei cimiteri vennero insediati nei chiostri dei conventi precedentemente indemaniati. Così accadde per Santa Maria della Fonte a Macerata e per Santa Maria in Varano a Recanati dove è particolarmente visitata la tomba piramidale di Beniamini Gigli, che comunque abbisogna di alcune opere di manutenzione e di restauro. Alcune muffe stanno infatti attaccando la costruzione all’esterno scolorendo l’epigrafe dettata da mons. Attilio Moroni, mentre all’interno si stanno staccando il bardiglio del pavimento e le tempere di Biagio Biagetti, forse perché soggetti a infiltrazioni d’acqua. A quanto c’è dato sapere gli eredi di Beniamino Gigli cedettero la proprietà del monumento funebre, ultima dimora del tenore, al Comune di Recanati.
Un discorso a parte meriterebbero i cimiteri fondati tra cui il San Michele di San Severino, opera dell’Aleandri, e quelli rifondati come il cimitero di Potenza Picena, interessante ampliamento dell’architetto Giorgio Massetani.
Il cimitero di Ussita è sicuramente il più monumentale della provincia di Macerata. Lo fece costruire il cardinale Pietro Gasparri nel 1914, forse perché prevedeva che sarebbe rimasto alla storia come artefice dei “Patti Lateranensi”. Un cimitero unico questo di Vallazza perché impiantato sulla piazza d’armi di Castel Fantellino, insomma un’urna dei forti particolarmente sontuosa. Un cimitero suggestivo opera dell’architetto Aristide Leonori con tanto di cinta muraria, torri angolari in stile eclettico contenenti le salme delle famiglie illustri e cappella neo-romanica. Insomma varrebbe la pena fare l’ultimo viaggio nella parte alta del camposanto dove si erge la turris capitis.
Nonostante ci siano tanti vivi che sono morti, continuiamo ad aver una immotivata paura dei morti che sono sempre vivi nella nostra memoria e così passiamo lontano dai cimiteri che una volta erano isolati, scanditi dal silenzio e individuabili da viali contrappuntati di cipressi. Eppure il nostro camposanto, fino a qualche anno fa delimitato dai cipressi, rappresenta un’interessante pagina di storia, con le sue implicazioni araldiche, artistiche e sociali. Nel centro storico della Macerata dei defunti colpisce particolarmente il tempietto piramidale della famiglia Paolorosso, contenitore delle spoglie di un uomo nato povero che importò il vitigno “Sangiovese”, lasciando inoltre due mogli sconsolate e una borsa di studio per gli studenti più volenterosi. Dal primo al secondo al terzo chiostro, tra piramidi egizie e calpestando chiusini, si arriva alla camera mortuaria dove svetta la tomba della famiglia Broglia, progettata dall’architetto Giuseppe Felici ed eccoci al muro di cinta dove l’ebreo errante boemo Ludovico Zdekauer aveva trovato nel 1915 l’ultima dimora, sopra all’insigne ebanista maceratese Diomede Cappelloni. Interessante anche il monumentino sepolcrale della famiglia Torresi, costruito nel 1882 su disegno dell’architetto eclettico Giuseppe Rossi, progettista della chiesa dell’Immacolata e di quella del Sacro Cuore. E ritornando al primo chiostro, quello progettato dall’ingegnere comunale Agostino Benedettelli, qui si trova il plastico sarcofago dei centauri Moretti, opera degli architetti Castelli e Marcelletti. E nei pressi sorge il cenotafio/ bunker con scossaline azzurrine della famiglia Russo, opera giovanile dell’architetto Mario Crucianelli. Tralasciando le vicende del cimitero, dall’apparizione del 1489 all’editto di Saint Cloud insieme a tante curiosità che si potrebbero rilevare, suggeriamo ”l’adozione” dei vari monumenti: basterebbe infatti un po’ di acqua e sapone e una dose di pazienza per ripulire il monumentino parietale della famiglia Lauri o la lastra tombale di Chiara Accorretti Rossi (opera dello scultore Fedele Bianchini) o il busto del Gonfaloniere Ferdinando Giorgini, opera di Carlo Pananti.
Qui giace anche Giovanni Ginobili (Petriolo 1892 – Macerata 1973), che nonostante una settantina di pubblicazioni stampate a spese proprie pur di tramandarci il dialetto, usi, costumi e leggende, è ormai caduto completamente nell’oblio di una Provincia molto attenta al recupero di personaggi, sovente usati per autocelebrazioni. Eppure è curioso che ai nostri amministratori, presidenti di enti, associazioni e compagnie di ventura, sia sfuggito che Guido Piovene nel “Viaggio in Italia”, spesso citato dagli stessi a sproposito, dedichi un’intera pagina al nostro antropologo: “Uno studioso locale, Giovanni Ginobili, vide nella sua infanzia liti furiose di comari che si denudavano in piazza perché le loro membra, non si sa come, dimostrassero a tutti, con il loro semplice aspetto, la fedeltà al marito, forse credendo che il peccato le avrebbe fatte dimagrire o annerire; oppure s’insultavano senza parole, mostrandosi in successione oggetti d’uso casalingo, che nel linguaggio muto della convenzione significavano oltraggio, sino a comporre tutto un lungo discorso”. Piovene ci offre inoltre una rara ed efficace descrizione del personaggio: “Giovanni Ginobili, maestro elementare, e studioso superstite del folclore marchigiano, abita a Macerata; è piccolo, con i capelli bianchi ritti a fiamma, che quasi ne raddoppiano la statura; ha raccolto canti, proverbi, musiche, costumanze, in una dozzina di libri e d’opuscoli”. E ancora “Una volta si portò a casa una mendicante decrepita di 92 anni per un accenno a una leggenda che gli era parso di cogliere nei suoi balbettii”. Insomma ritengo che il nostro Ginobili meriti una laurea ad honorem, una via cittadina o almeno una lapide fuori la casa di Macerata, quella casa in via Emanuele Filiberto dove ha abitato tanti anni con la sua numerosa famiglia. Comunque Giovanni era un gran burlone che aveva previsto l’ingratitudine del popolo bue maceratese, tanto che nell’ultimo chiostro del cimitero di Macerata ha lasciato a futura memoria un epitaffio che consiglio di leggere.
Il viaggio tra loculi, fornetti, camposanto e ossario potrebbe continuare verso le nuove espansioni databili da lapidi, fioriere, epigrafi, foto a colori, alloggi popolari, villini unifamiliari, grattacieli che rappresentano il gusto laico del nostro tempo fino alla Macerata due dei morti. Ma all’uscita ci colpisce la lapide dell’ingegnere della Provincia Domenico Mariotti, progettista della linea ferroviaria Chienti-Potenza e di mezzo manicomio. Quando si dice nemesi storica… i nostri morti continueranno ad illuminarci con quelle fiammelle.
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Complimenti, molto interessante!!!