“In quel castello dove nacque Macerata”

Il ricordo di Febo Allevi a cento anni dalla nascita

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Febo

Febo Allevi

di Gabor Bonifazi

E’ stato molto partecipato l’evento in onore di Febo Allevi per  i cento anni  dalla nascita. Una cerimonia semplice e solenne al tempo stesso con tanto di banda e corale e con al centro le comunicazioni di storici illustri, tra cui quella del grande medievalista fiorentino Franco Cardini, che hanno tratteggiato la figura e le opere di questo grande studioso. Al di là dei vari titoli accademici, Febo Allevi era un uomo integrale, un uomo di ferrei principi, un uomo di fede e di grande umanità che amava scendere nel territorio e ascoltare i suoi abitanti che chiamava “i parlanti”, per verificare i dati raccolti nei polverosi archivi. Confesso di avere letto gran parte delle sue originali  pubblicazioni e soprattutto di aver ascoltato e discusso le sue entusiastiche intuizioni sia riguardo il Medioevo che le tradizioni popolari. In uno dei tanti viaggi senza tempo capitammo a Sant’Angelo in Montespino di Montefortino e poi, sempre a caccia di Sibille, a S.Giorgio all’Isola e a S.Maria a Casalicchio di Montemonaco. Un’altra volta ci dirigemmo all’Abbazia di Santa Croce al Chienti, quasi per verificare la Canzone dei Castra (Ceritanello, mio ceritanello…) e la leggenda d’amore di Lotario e Imelde. Un’altra volta arrivammo al convento di Colfano (Cessapalombo) e con padre Natale Sartini ci dirigemmo alla Grotta dei Frati, alla carbonaia del conte Lozzi, alla Roccaccia di Col di Pietra e al Monastero di Monastero. In qualche maniera giocando agli esploratori ci spingemmo fino verso la Città di Cessapalombo su un carrettone attaccato al trattore guidato da Peppe Meo, un vecchio commerciante di bestiame. febo-alleviQualche volta siamo andati al cimitero di San Ginesio per onorare i suoi cari e molto spesso abbiamo discusso tra i diecimila volumi conservati nella biblioteca/mansarda su vicende e personaggi. Così nel 1984 capitò che nel parlargli dei miei risultati su Fonte Agliana si entusiasmò talmente che mi invitò ad una perlustrazione a Santa Maria in Selva, il luogo di origine del toponimo, tanto che nell’area archeologica Mozzicafreddo trovammo un raschietto circolare e qualche frammento a riprova di quella presenza demica del castello dei conti d’Agliano di cui mi aveva parlato. Ci scrisse un articolo di getto, un vero e proprio saggio breve che riportai alla fine dell’instant book «Fonte Agliana» e, prevedendo l’incuria infinita del manufatto infrastrutturale e il saccheggio del testo, aggiunsi un sottotitolo: Storia di un recupero impossibile. Ed ecco il pezzo che Febo Allevi ha voluto regalarmi in segno d’amicizia:

6260946162_df8ecc819fIn quel castello dove «nacque» Macerata

 Ajano! A volte viene fatto di ripensare nostalgicamente al passato anche dinanzi ad un nome locale, quando, abbandonata nell’angolo di un abitato o peggio sperduto in un punto del suo più ampio distretto, esso rinuncia ad invocare una rapida sosta del passante o, ancor più malauguratamente , di non esser carico di potere evocativo o di memorie lontananti nel tempo. E, pur se inserito tra le righe del documento, raramente trovava il lettore disposto a sottolinearlo con fretta – secondo i nuovi indirizzi storico-filologici – per tema di perderne le segrete proposte e i suggerimenti nascosti nelle poche sillabe di cui si componeva.

Ma è questo il caso di Ajano? La sua area di espansione è così vasta che par inviti ad escludere ogni velleità ermeneutica come oziosa o superflua. Ma diciamo subito intanto che la sua esatta lezione è Arano e non Aiano o Ajano, perché nelle Carte fiastrensi dei primi secoli dopo il Mille solo un paio di volte è Aiano, mentre Arano si ripete in una trentina di pergamene, a cominciare dalla prima del 1006, convalidando così la notizia riferita dal Compagnoni, secondo cui l’imperatore «Galieno felicitò Recina, fabbricandovi pubblici Granari», donde le «due mole, o macine, arma antichissima» della stessa vicina Ricina inserite poi nello stemma della nuova città.

Un «planu de Ara grani vocatu» incontriamo infatti in un’altra carta del 1151 e questa a noi sembra la spiegazione più esaustiva dell’oronimo, destinato a distinguere in seguito anche la sottostante grancia cistercense, dipendente dalla Chiaravalle di Fiastra, pur attraverso la sua più tarda modifica mediata dalla Francia. Cella granitica dunque nell’età di Roma, sormontata da un’ampia luminosa terrazza, dove fin dalla preistoria si era formato un insediamento, le cui testimonianze riemergono di tanto in tanto furtive a guisa di monito severo, come per rammentarci cioè che, insieme ai nostri romani e medievali, – per dirla con lo Zanella – «noi siamo di ieri»!

Mai forse è venuta meno la continuità dei parlanti su quest’altura, la cui vista non incontra diaframmi per largo giro d’orizzonte. Ce ne danno conferma: per l’età più remota della picena reperti archeologici, come le capanne neolitiche di qualche migliaio di anni or sono, di cui attendiamo un racconto da quel consumato Maestro che è Salvatore Pianesi; per quella romana prediali come Mussiano, Piangiano, Miliziano, o indicazioni come Fleta, pertica, pago, strada romana o Sisilla (che vuol dire Ursicilla o del pollentino Flavio Orso), per il Medioevo curia, castro, girone, re, monaco, peschiera (per via della monastica osservanza del magro!), pecorareccia (specie di estesa cripta sotterranea per greggi numerosi, ancor visibile a Villamagna di Urbisaglia), o dedicazioni di chiese come S. Maria, S. Lucia, S. Savino, S. Salvatore, o antroponimi di ascendenza gotica come Goto e Manasse, longobardo come Aldevrando, Afrando e Adalberto e franca come Tramondo e Manfredo.

Su questo piano, somigliante a tante altre specole del nostro Piceno, emergenti quali guglie di campanili solitari nello sciamare di nebbie lungo i rispettivi fondovalle, quasi offerte improvvise della natura generosa di momenti di distacco dal quotidiano affannoso ed istanti di contemplazione goduta, su questo piano – si diceva – proprio nei secoli intorno al Mille, si levava un castello animato da presenze operose raccolte intorno ad una dinastia comitale, destinata a seguire le sorti del fenomeno feudale  e a sparire quindi con la fine degli Svevi e la crisi dell’impero riesumato da Carlo Magno.

Le sue tracce si perdono nel secolo XIII, forse anche per l’esaurirsi della continuità del casato, sospeso tra le mire espansionistiche delle due nuove comunità di Treja e Macerata, nonché dell’ordinario della diocesi osimana, il quale si incontrava con il suo collega di Camerino grosso modo proprio all’altezza della linea ideale intesa a congiungere i frastagli edilizi  dei due stessi comuni nascenti. I Broglio verranno investiti del titolo di conti di Aiano più tardi, nel Quattrocento, quando oramai dell’antica famiglia si era perduto anche il ricordo.

Ma si può supporre che nel loro incipiente crepuscolo i primi nostri signori (o un loro ramo) abbiano deciso di incastellarsi a Macerata, previa scelta, come nella prassi del tempo, di uno spazio prospiciente le opposte alture della valle e disposto ad accogliere la loro nuova abitazione, la chiesa della rocca o del villaggio (S. Salvatore?), il nome della contrada lasciata, persone di servizio ed altre affettive e necessarie presenze, come anche la fontana riservata all’intero nuovo complesso demico, che nella fattispecie poteva ripetere le proporzioni ed i moduli della medesima “fonte Arani”, di cui alla carta del 1181, che vuol poi sottolineare l’esatta ubicazione: “in curiam Arani”.

Il mulino restava invece laggiù, in uno degli slarghi del fiume o, per maggiore precisione, nella “rota que vocabatur Pertecarella”, in compagnia di altri del pari adagiati nella più aperta e dilatata distesa detta Campo di Rota, compresa allora nella giurisdizione dell’abbadia di Rambona, la quale a poco a poco finirà per cederli al controllo delle più autorevoli comunità cittadine.

Forse i figli del conte Manfredo nei primordi del Duecento avranno sperato, salendo sul colle maceratese, di identificare il nome del loro castello non solo con una parte del centro abitato (come pare confermi anche la Porta un tempo esistente fra gli odierni palazzi Cioci e Cataletti), ma con l’intero stesso centro, ignari forse dei vari ostacoli e impedimenti insorgenti nello svolgersi della loro nuova sistemazione, non esclusi quelli frapposti da altre famiglie più potenti, come i Da Lornano, altrettanto incapaci di dimostrare maggior successo o fortuna in questa vicenda, contrariamente a non pochi altri colleghi che persino il nome del capostipite genealogico riuscivano a lasciare quale duratura memoria al luogo da loro scelto e occupato, così come era accaduto per la Fara Filiorum Petri, ad esempio, o per il Castrum Filiorum Optrani.



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