di Gabor Bonifazi
Il 20 novembre 1980 con la frana di Montelupone se ne andò anche un luogo di evasione popolare: la Cantina 1890. L’evento calamitoso inghiottì completamente lo storico locale fondato da Pietro Ferramondo detto Porchittì, il nonno del simpatico ex-cancelliere del Tribunale di Macerata: muri e solai, archi e travi annerite, mobili e stoviglie vennero risucchiati al centro della terra, in una voragine profonda ben trenta metri. E dire che l’antica cantina, situata nei pressi di Porta Ulpiana, aveva quasi cent’anni e aveva coinvolto nell’attività ben tre generazioni della famiglia di cantinieri: Pietro, Luigi e Pierluigi.
Sorta nel 1890 come locanda con tanto di stalla per i cavalli, camerette per i viaggiatori e naturalmente una caratteristica cucina dove consumare i pasti, negli anni ’20 Luigi, il babbo di Pierluigi, incrementò l’attività vitivinicola con quella ortofrutticola, anche se la vinificazione, con ben venti botti di varia capienza, rimaneva l’attività prevalente che rese famosa la cantina/ osteria nell’intera regione.
Negli anni ’50, alla morte di Pietro Ferramondo, la cantina venne gestita dalla vedova Ada Cerquetti con l’aiuto di Alfredo Cardinali, un esperto vinaio che aveva iniziato l’apprendistato come garzone di bottega.
La storia di famiglia, della cantina e dei tanti avventori continua con Sandra Mancini, la moglie di Pierluigi. Infatti nel 1969 Sandra si mette dietro il banco e tra i fornelli, il camino e le botti. L’ultima ostessa ricorda volentieri quegli anni passati in allegria, con il marito instancabile maratoneta e animatore del gruppo folkloristico con sede e nome proprio della cantina. Sandra ricorda particolarmente l’usanza del giorno dei morti, quando la gente accorreva numerosa per il suo cibo della tradizione. Infatti, dopo la messa per i defunti, le persone arrivavano a frotte perché ella offriva loro le caratteristiche fave dei morti. Un manicaretto succulento che richiedeva una lunga preparazione: fave secche tenute a bagno per quattro o cinque giorni e successivamente bollite, arricchite da una salsa costituita da un tritato di sardoni, peperoni sottaceto, prezzemolo, aglio e tanto olio. Una cucina fatta con poco o nulla, tanto lavoro e tanta passione, una cucina sapida che attirava il bicchiere di vino, un piatto dei vivi in memoria dei morti, un cibo della tradizione che non deve andare perso e che pertanto non può rimanere inghiottito da quella maledetta frana insieme ai tavoli e ai panchetti della mitica cantina de Purchittì, il sapiente norcino specializzato nella porchetta.
Ora che le nostre identità alimentari si sono disperse nella nebbia non ci rimane che ricordare la ricetta delle “Fave dei morti” pubblicata da Franco de Fifì, un monteluponese appassionato di quell’arte culinaria povera che stiamo perdendo, in “Bontà vera”: “A Montelupone il giorno del 1° Novembre c’era la tradizione che dopo aver commemorato tutti i propri defunti, andar per cantine dove si poteva assaggiare le fave dei morti accompagnate da un buon bicchiere di vino.
INGREDIENTI: fave secche, alici, sardelle, peperoni sott’olio, capperi, olio d’oliva, prezzemolo, peperoncino, aglio.
PREPARAZIONE: prendete tutti questi ingredienti elencati e tritateli tutti assieme, fateli rosolare in abbondante olio d’oliva in un tegame alto in modo che quando avrete lessato le fave unite il tutto. Amalgamateli insieme fino ad ottenere un composto omogeneo”.
Il simpatico oste Franco de Fifì chiude la ricetta delle fave in memoria dei morti con un augurale “Buon appetito”.
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Mentre sto assaporando le ottime fave dei morti del bar Pierino, è interessante capire che nella tradizione maceratese esistono anche delle fave dei morti salate. E a guardar la ricetta sembrano davvero buone!