di Ugo Bellesi
La Delegazione di Macerata dell’Accademia Italiana della Cucina, in occasione di una seduta accademica che si terrà domenica 6 novembre alle 12,30 nel ristorante “Mangia” a Civitanova Alta, per la prima volta darà vita ad un “laboratorio” per lo studio e la degustazione dei formaggi delle Marche. Non tutti, ovviamente, perché sarebbe impossibile, ma soltanto di quelli che sono maggiormente diffusi tra i consumatori, come ad esempio la casciotta di Urbino dop, il pecorino semi stagionato, il formaggio caprino a pasta semidura, la mozzarella di bufala, il formaggio di fossa, il pecorino fresco e il pecorino a pasta semidura.
Le guide, per condurre i commensali alla conoscenza di queste eccellenze, saranno di tutto rispetto in quanto si tratta di Caterina Pennesi (che illustrerà le proprietà organolettiche dei formaggi), del professor Diego Poli (che dei formaggi farà un excursus storico letterario), e di Gianni Cammertoni (che spiegherà le caratteristiche dei piatti serviti), mentre lo chef del “Mangia” Paolo Mazzieri, oltre ad illustrare le difficoltà di abbinare i formaggi con i piatti della tradizione, esporrà l’idea di proporre questa esperienza alla sua clientela inserendo nel menù del ristorante alcune di queste ricette in cui figurano varie rielaborazioni del formaggio come la crema di pecorino sopravissano, il gelato di pecorino e tartufo nero e la crema al caprino acidula.
Ma per avere sui formaggi le idee più chiare, in preparazione di questo evento al ristorante “Mangia”, ci è di prezioso aiuto un interessantissimo intervento del professor Diego Poli che, con questo scritto per lui inconsueto, dimostra una profonda conoscenza anche in materia gastronomica. Ecco il testo integrale.
«Si sa che nulla va dato per scontato in assoluto. Questo principio vale pertanto anche nel campo relativo alla alimentazione e alla cucina come ben è illustrato dalla storia del formaggio e dal suo uso nel mondo e in Italia. Prodotto alimentare ricavato dal latte per coagulazione, pur derivando dal nutrimento vitale per i mammiferi, mostra chiaramente come le vie del latte e delle sue trasformazioni siano dipendenti da una serie di variabili che ne determinano la fortuna. Bisogna infatti partire dal presupposto iniziale di un impegno economico-sociale nell’allevamento di bovini e/o ovini – che ad esempio conosce soltanto affermazioni episodiche nell’Estremo Oriente -, cui vanno aggiunte le consuetudini dietetiche nel consumo di latte e latticini – comprensibilmente alla insorgenza di intolleranze ed allergie – e la tradizione culinaria di ogni specifico territorio.
Per restare all’Europa, la linea divisoria che riguarda l’impiego di prodotti caseari si incontra con la concorrenziale presenza dell’olio rispetto al burro- che soltanto in parte viene a coincidere con l’altro grande discrimine fra vino e birra. La Francia ad esempio ha sviluppato una cucina “settentrionale” basata sui derivati del latte che ha tolto spazio a quella della meridionale Provenza; la Germania e l’Inghilterra non hanno conosciuto, almeno fino a poco fa, altro condimento, a parte quello ricavato dal suino, che burro.
L’osservazione che, nel secolo I d.C., Plinio riferisce in merito alle differenze nella alimentazione romana rispetto a quella dei Germani segnala l’ampio consumo di latte, burro, yogurt e latte acido, detto in italiano anche latticello e in tedesco e inglese Buttermilch e buttermilk – da cui però non consegue la trasformazione in formaggio: “è sorprendente come popoli barbarici, che vivono di latte, ignorino o disdegnino da tanti secoli i pregi de formaggio, benché sappiano fare addensare il latte in una sostanza gradevolmente acida e in un burro grasso” (Storia naturale XI 239).
Questa osservazione di Plinio fotografa in patica la situazione attuale, giacché il latte acido da noi è quasi ignorato e lo yogurt è entrato nell’uso domestico molto selettivamente a partire dalla seconda metà del Novecento. La difformità è fondata storicamente e come ogni fenomenologia storica può modificarsi; tuttavia in Italia, nonostante le modificazioni in corso, la mappa della produzione casearia e del corrispettivo impiego alimentare è ancora ricalcata sui più antichi limiti delle aree dell’olio e del burro, ciò che si riflette anche nella quantità delle specifiche denominazioni nonché nella gamma dei contenuti in grasso, della consistenza di pasta, della maturazione stagionale, della modalità di caseificazione e ancora nella presenza di formaggi di latte vaccino, caprino, ovino e misto. In questo quadro, l’area settentrionale della Penisola possiede una vasta platea di formaggi che vanno a ridursi soprattutto a uniformarsi nella fascia centrale e meridionale.
Le Marche, una regione contraddistinta da olio di alta qualità, offre, come ci si aspetta, una scelta limitata di tipicità che si articola attorno alle casciotte, ai pecorini con il formaggio di fossa e con alcune varietà locali, come lo slattato, spalmabile, il casècc e il Raviggiolo del Montefeltro».
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