di Ugo Bellesi
Tra i numerosi scrittori che si sono occupati della guerra di liberazione nelle Marche e quindi di tutte le vicende riguardanti la lotta partigiana in questo territorio merita una particolare attenzione il dottor Alessio Marchetti, già medico ospedaliero oggi in pensione, il quale ha concentrato le sue ricerche sugli eventi, spesso drammatici, che si sono verificati in quegli anni turbolenti nell’Alto Maceratese. E la materia egli la conosce assai bene in quanto, essendo nativo di quella terra, sa inquadrare alla perfezione ogni punto strategico, sia che si tratti di una chiesetta sperduta tra i campi o di un ponticello di un minuscolo torrente.
Ugo Bellesi
Il volume, che ha per titolo “Dalla banda Ferri alla brigata Spartaco”, con sottotitolo “La Resistenza nell’Appennino umbro-marchigiano”, è un concentrato di notizie di prima mano che si leggono tutte d’un fiato in quanto la descrizione scorre veloce, senza fronzoli né frasi retoriche, ma ricca di dettagli e di particolari interessantissimi senza neppure essere arricchiti da tanti aggettivi, spesso inutili quando la crudeltà degli eventi è di tutta evidenza. Ma perché dopo tanti anni rivangare ancora quelle vicende? Innanzitutto perché è una storia che non va dimenticata in quanto è costata tanti morti e ha significato mesi e mesi di sacrifici, di terrore e di fame per tutti gli abitanti dell’Alto Maceratese. E poi perché gli episodi messi in evidenza dall’autore e le sue considerazioni saranno sicuramente “possibili spunti per ulteriori ricerche”. Infatti si tratta di “una storia di uomini e dei loro atti, di fatto dimenticata per vari decenni”. Tra l’altro Marchetti non si limita a raccontare gli episodi ma molto abilmente mette in evidenza come l’alta Val di Chienti e la Valnerina, per molti aspetti, ebbero un ruolo molto importante rispetto agli eventi bellici verificatisi subito dopo l’armistizio firmato tra l’Italia e gli Angloamericani, quando il re e Badoglio si rifugiarono a Brindisi e l’esercito italiano, rimasto senza ordini, andò allo sbando. I tedeschi, occupata militarmente l’Italia del centro nord, erano impegnati a contrastare la risalita delle truppe alleate sbarcate a Salerno il 9 settembre. Mentre ai loro reparti dislocati nelle Marche era stato affidato l’incarico di assicurare le vettovaglie per le truppe tedesche che occupavano Roma.
Altra considerazione interessante è l’aver sottolineato da parte dell’autore che, dopo Cassino, a sbarrare la strada verso il nord, prima della linea gotica, era stata creata dai tedeschi la “linea Frieda” che, partendo dal Trasimeno, interessava la vallata del Chienti. E d’altra parte i reparti delle Ss in ritirata, che temevano il fronte di Cassino e successivamente quello di Anzio, dove potevano arroccarsi si fermavano per rallentare la marcia degli angloamericani. Le prime bande di partigiani composte da giovani italiani renitenti alla leva, da slavi, sfollati, ex prigionieri di guerra e militari che avevano lasciato i loro reparti, ebbero come loro primo obiettivo quello di bloccare gli automezzi, carichi di vettovaglie, diretti a Roma. All’inizio fu un compito facile in quanto oltre agli autisti non c’erano militari armati a loro protezione. Intanto gli angloamericani non mancavano di aviotrasportare per i partigiani armi, munizioni ed esplosivo. L’opera delle bande armate divenne ancora più importante quando gli alleati sbarcarono ad Anzio. Fu allora che ai partigiani fu dato il compito di tenere impegnate le truppe tedesche di stanza nelle Marche per evitare che queste affluissero a protezione di Roma o fossero spostate verso il fronte sud.
Ma come si erano formate le prime bande di partigiani? Furono varie le circostanze. A Pieve Torina ad esempio fu proprio il parroco don Mario Vincenzetti a coagulare intorno a sé i primi gruppi patriottici. Altrove la volontà di creare gruppi armati fu creata dalla necessità di arginare disordini e soprusi da parte di sbandati desiderosi di approfittare della situazione. A Fiastra il pericolo maggiore era che ci fosse un assalto ai magazzini del Consorzio agrario in cui c’era il grano destinato a sfamare la popolazione durante l’inverno. Quindi non pochi furono coloro che si rivolsero alla famiglia di notabili locali come i Ferri perché “scendessero in campo”. L’invito era soprattutto per l’alto magistrato Giovan Battista Ferri. L’altro Ferri, il maggiore dell’aeronautica, Antonio, si era messo in evidenza, come scienziato, nel Centro studi ed evidenze di Guidonia. E’ per questo che aveva ricevuto l’invito di Kesselring, comandante delle truppe tedesche, di trasferirsi in Germania. Egli invece, messa al sicuro la famiglia a Francavilla a Mare, si era ritirato nella casa paterna a Fiastra.
Sandro Pertini
Intanto a Visso si era formata una banda armata guidata dal socialista Pietro Capuzzi, che era in contatto con il Cln di Roma e quindi con Sandro Pertini e Giuliano Vassalli. Tale collaborazione non era gradita dal Cln di Macerata, dove era giunto dal sud il generale Melia, portavoce del governo Badoglio. Il Cnl decise allora di coordinare tutte le bande sotto il “comando unico” del capitano Ernesto Melis che, da Spoleto, aveva portato a Visso la sua formazione. In un convegno a San Maroto aderirono le bande di Massaprafoglio, Serravalle, Tolentino-Fiungo, Fiastra e Visso. Capuzi fu designato come commissario politico. E l’autore non manca di ricordare la presenza a Visso di Sandro Pertini (impegnato in una lunga marcia sulla neve tra Visso e Muccia con Capuzi e alcuni partigiani per una operazione contro i fascisti), ma è ancora più dettagliato nel descrivere con molti particolari il massacro effettuato dai partigiani il martedì grasso nell’osteria “Cucculelli” a Muccia dove “rimasero uccisi sei militi e un operaio livornese; un altro operaio ferito si salvò nascondendosi nella cappa del camino”. Quei militi uccisi erano stati destinati lì per proteggere gli operai impegnati con lo spartineve a tenere libera la strada. Nell’osteria c’erano anche i familiari dei militi ma i civili furono separati dai militari.
Il 13 marzo, su sollecitazione di Pertini, sul pianoro di Macereto da parte degli alleati ci fu un lancio di armi, esplosivo e denaro destinato a bande locali e al gruppo di Roma guidato da Franco Malfatti e Giuliano Vassalli. Da Roma erano giunti anche Cirillo Spinelli, fratello di Altiero, e Carla Voltolina che nel 1946 sposerà Pertini. Il lancio andò a buon fine ma il camion venuto da Roma per portare nella capitale parte del carico dovette tornare indietro vuoto perché a Visso trovò un fitto brulicare di tedeschi. Quei militari infatti erano impegnati in quelle ore a smantellare la banda Melis mentre nella capitale, per ordine di Klapper furono arrestati numerosi collaboratori del gruppo socialista Vassalli-Malfatti. Questi episodi disarticolarono l’organizzazione che aveva dato vita al “comando unico” agli ordini della brigata Spartaco impegnata sul fronte tra Marche e Umbria d’accordo con gli alleati angloamericani.
La brigata Spartaco era stata creata il 26 marzo quando le formazioni partigiane ancora operanti nella zona si incontrarono a Riofreddo decidendo di dare vita ad un raggruppamento forte, destinato a diventare una delle più importanti formazioni patriottiche delle Marche. Vi avevano aderito Giuseppe e Antonio Ferri, Feltre Bartocci, Roberto Battaglia, Pietro Capuzi. Questa brigata aveva dovuto operare sul fronte marchigiano sempre in contatto con le brigate umbre. Il comandante era il tenente Giorgio Gatti mentre come ispettore della brigata di Marche e Umbria, “Garibaldi”, il Cnl di Roma nominò il comunista Celso Ghini. Questo significava che, rientrato Pertini a Roma, i socialisti cedevano il passo al Pci. Intanto a Massaprafoglio fin dal 1943 si era creata una banda di 12 giovani comunisti di Camerino molto combattiva per essersi distinta in varie operazioni.
La lapide di Pietro Capuzi
Rispetto ai brani sulla guerra partigiana, più piacevoli sono ovviamente le pagine che l’autore dedica alla descrizione di alcuni protagonisti dei tanti episodi successivi all’armistizio dell’8 settembre del ’43. Tra tutti primeggia Giovanni Battista Ferri, magistrato di lungo corso che nel 1943 era presidente della Corte d’appello di Napoli. Amava la casa di Fiastra dove aveva due piccoli poderi e dopo l’armistizio rifiutò di collaborare con il governo fascista preferendo rimanere senza lavoro e senza stipendio e rifiutò anche altri incarichi per cui venne messo a riposo. Contro di lui si scatenò l’ira del prefetto di Macerata Ferrazzani che ne ordinò la cattura “col proposito dichiarato di distruggere l’eccellenza Ferri e la sua famiglia” tanto che sembra abbia anche esclamato: “Con i Ferri ci faremo le salsicce”. Ma fu tutto inutile perché neanche la caccia all’uomo e una taglia posta sulla testa di tutti i Ferri dettero risultati. Il rifugio preferito di Giovanni Ferri, che mai si allontanò dalla zona, era l’abitazione della famiglia di Luigi e Francesco Marchetti a Lucciano. Se arrivavano i tedeschi per cercare di catturarlo l’eccellenza si rifugiava in soffitta. Il pericolo più grosso lo corse quando un giorno si trovava in terrazza e notò due ufficiali tedeschi nella stanza attigua. Nonostante l’età egli scavalcò un muro e raggiunse il tetto della casa. Non soddisfatto rimosse alcune tegole e si rifugiò nella soffitta sottostante. La cosa più singolare fu che il magistrato fu sottoposto a processo di epurazione due volte: dai fascisti perché antifascista e dal governo, composto da partiti antifascisti, perché considerato fascista. Il primo ovviamente non ebbe seguito e il secondo venne vanificato dall’intervento del figlio Giuseppe e di Giuliano Vassalli. A Giovanni Ferri rimase la grande soddisfazione per il successo dei figli come capi partigiani.
La copertina del libro di Marchetti
L’autore non manca poi di riportare la relazione che Francesco Marchetti, nominato sindaco di Pieve Torina, fece nella prima seduta del consiglio comunale il 23 luglio 1944, nella quale, dopo aver ricordato gli scontri con il prefetto di Macerata, Ferrazzani, dichiara: “Non è mia intenzione, in modo assoluto, rimanere in carica un solo momento dopo che le cose pubbliche siano avviate alla normalità”. Ma ancora più significativa la frase: “Dopo un ventennio, la rappresentanza del popolo torna a risolvere i problemi del proprio paese”.
Uno dei capitoli più significativi di tutta la vicenda l’autore lo ha intitolato “Storia d’oro e di sangue” con precisi riferimenti alle medaglie d’oro meritate dai partigiani e alle tante vittime militari e civili di quella che fu anche una guerra fratricida. Il giorno 9 maggio due compagnie tedesche operavano ad Ussita. Alcuni suoi plotoni avevano arrestato alle 5 del mattino Pietro Capuzi che si nascondeva in un fienile a Macereto. Erano andati a colpo sicuro. Per questo arresto i tedeschi non dovettero compensare nessuno. Infatti “molti soldi, dell’ordine di milioni”, erano stati versati “ad una o più persone che sapevano dove Capuzi li teneva nascosti, a disposizione dei patrioti romani”. Con Pietro Capuzi fu eliminato uno dei protagonisti della resistenza e della collaborazione politico-militare col comitato di guerra del Cln di Roma.
Nelle ultime pagine del suo volume Alessio Marchetti non manca di ricordare la fucilazione di inermi cittadini da parte dei tedeschi il 22 giugno a Palentuccio e la fucilazione di molti partigiani e civili a Pozzuolo il 24 giugno, giorno di San Giovanni. Quattro giorni dopo, il 28 giugno, i tedeschi, sconfitti sul Trasimeno, iniziarono la ritirata verso il nord incalzati dalle formazioni di partigiani.
Il volume è arricchito dalla postfazione del prof Marco Severini (presidente dell’Associazione di storia contemporanea), da una appendice iconografica (ricca di documenti inediti) e da una preziosa bibliografia.
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Non dimenticare mai da chi e dove la nostra democrazia prese inizio. In proposito, ho il mio “vangelo”, sempre alla mia vista: il libro del comandante de Le Bande Nicolò, Augusto Pantanetti, che conobbi, insieme ad altri esponenti partigiani, mai dimenticati, e che realmente combatterono sui Sibillini per la liberazione dell’Italia.