L’intervista a Nino Ricci nella sua abitazione in onore dei suoi 90 anni. L’artista è uno dei più grandi esponenti della cultura maceratese
di Carmen Russo
Vi sono due modi per calcolare l’età: il primo è quello di conteggiarli ad anno concluso, il secondo è di contare tutti i 365 giorni dell’anno di vita. Nino Ricci, artista che non ha bisogno di presentazioni, si avvia con orgoglio verso i 90 anni, «non ancora suonati. Sono nato il 2 ottobre 1930. Ma gli anni ‘30 non me li ricordo». Risponde con spirito alla prima domanda, quella su come ha vissuto la sua vita uno dei nomi più illustri dell’arte maceratese.
«Per quanto riguarda gli anni ‘40 non me la sento di decantarli, sono stati oggettivamente brutti. Gli anni che mi sento di ricordare per primi sono quelli della mia frequentazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. Visti oggi potrebbero sembrare niente, ma allora, nel ‘50, avevano una consistenza diversa. Perlomeno, noi avevamo la speranza di avere una consistenza».
Mi racconti di quei tempi.
«Professionalmente, il Centro Sperimentale era un passo avanti, dal punto di vista quotidiano, invece, sembrava essere dieci passi indietro. L’atmosfera al Centro era molto aperta nei nostri confronti, ma dall’esterno ci obiettavano la facilità di avere accesso a certe cose, come fare una chiacchierata con i registi, quelli veri. Cito ad esempio Alessandro Blasetti, il regista. Passeggiava insieme a noi tutti i giorni e questo ci dava una carica diversa, ma nello stesso tempo ci dipingeva come personaggi un po’ strani, ma non era così. Eravamo affascinati da lui. Insegnava al corso di regia. Quando arrivava questo omaccione con tenute tra lo sportivo e il militare, gli stivali… lo chiamavamo Blasetti con gli stivali».
Nino Ricci
La sua vita professionale è stata dunque tra cinema e disegno.
«Io ho scelto la sezione costume e ho ottenuto la borsa di studio. Passavo la giornata nella stanza con le tavole da disegno con i miei colleghi, sotto la supervisione di chi ci ha indirizzati con fermezza e noi andavamo certi e sicuri di quel che stavamo facendo, liberi anche di sperimentare. Il nostro lavoro era legato alla storia dei costumi e alla sua applicazione. Vedevamo film di grande sfoggio di abiti, non solo storici ma anche contemporanei perché le necessità erano diverse, dovevamo essere molto attenti.
Il cinema era un paradigma della società.
«Bisognava trovare un equilibrio. Noi l’abbiamo trovato in un’aula dove poter lavorare e concentrarci, a porta chiusa per poi uscire. Anche oggi bisognerebbe sperimentare di più “in corpore vili”, sul campo! Noi andavamo anche nelle sartorie a vedere nella realtà come veniva applicato ciò che studiavamo, insomma passare dal teorico al pratico.
Come ha vissuto i suoi studi e la sua arte a Macerata?
«Come l’ho vissuta? Non parlandone! A chi potevo raccontarlo? Non perché io pensassi alto, semplicemente era un mestiere diverso. Quello che mi ha aiutato dell’eredità cittadina è stata la disponibilità, le chiacchiere con le persone, niente arie. Qui non si sapeva nemmeno cosa fosse il Centro Sperimentale. La mia dimensione l’ho trovata nel non parlare di ciò che facevo, altrimenti avrei costretto e trascinato il loro campo che era più professionale, ma io ho sempre fatto cose…(muove le mani per dire intangibili, ndr)
Non si direbbe, visto che il suo è uno dei nomi più illustri della cultura maceratese…
Ride e fa spallucce.
«Nino Ricci è tuttora presente alla galleria d’arte moderna di Roma con un’opera del 1974, in una mostra organizzata da Giuseppe Appella e dedicata a Vanni Scheiwiller, celebre critico d’arte ed editore. Nel volume di riferimento si dice che Macerata è stata un punto importante per Scheiwiller, proprio grazie alla relazione con gli artisti.
I rapporti con Vanni erano fraterni, lui arrivava e annunciava il suo arrivo, mia moglie iniziava a cucinare per tutti: era di casa. Non l’ho mai portato in giro a fare visite particolari, si usciva e pian piano lo introducevo alla vita locale».
A tal proposito, della politica della cultura di Macerata cosa mi dice?
«Non la vedo, negli ultimi anni ci sono stati atteggiamenti spiritosi ma niente di consistente. La cultura è una cosa complessa: non è la semplificazione dei problemi, anzi è la complicazione dei essi. Se in passato non ci fossero stati sabotaggi più o meno coscienti, probabilmente avremmo avuto altre indicazioni, altri indirizzi. Per sabotaggi intendo, ignorare quello che è stato suggerito da chi ne sa, chi – come me – che ha fatto quello tutta la vita».
E ora cosa si sente di suggerire a Macerata?
«Calci nel sedere a chi di dovere e ricominciare umilmente per guadagnarsi la stima, anche del mondo di fuori».
È questo che è mancato a Macerata per diventare la città della cultura italiana, titolo conquistato da Parma?
«Sono mancate le persone che la ben rappresentano: le cerque non fa’ le melarance».
Con le prossime elezioni si può tornare sulla via dell’arte?
«Sono stato ascritto nella lista di supporto di Stefania Monteverde, ma nell’attuale panorama politico la mia simpatia non è univoca. Ritengo validi candidati anche David Miliozzi e Luciano Pantanetti (insomma tutti tranne il candidato del Pd alle primarie Narciso Ricotta, ndr). Però ora faccio io una domanda: c’è davvero interesse? Se c’è interesse si può fare tutto».
Ripartendo da zero?
«No, partire da zero no. Abbiamo tanto, bisognerebbe radunare quel materiale per rivalutarlo e valorizzarlo. E dare appalti a chi conosce, a chi sa, non a chi non sa. Siamo governati da una politica economico-relazionale, dai soldi e dallo scambio di favori. Per ripartire ci vuole un minimo di entusiasmo e non perché l’ha deciso il sindaco – chiunque sia. Se la pubblica amministrazione diventasse meno protagonista, meno invasiva, potrebbe lasciare spazio alle persone giuste: coloro che hanno titoli ed entusiasmo».
Quindi cos’è successo in questi ultimi anni?
«Negli ultimi 10 anni secondo me, hanno posato gli strumenti e hanno alzato le mani. Sono stati a guardare cosa succedeva».
I maceratesi come hanno reagito a questo atteggiamento?
«Non se ne sono accorti. Il maceratese si è confermato quello che è sempre stato: un soggetto che lascia la responsabilità agli altri. Una qualità di un maceratese, invece, potrebbe essere la puntigliosità. La voglia di non arrendersi è apparente, ma non vorrei sembrare drastico».
Lei vanta nella sua formazione l’aver frequentato alla Scuola di Urbino, illustrazione e rappresentazione della realtà. Una realtà accademica…
«Nessuno tenta di incasellarmi nei pittori realisti, ho usato quel mezzo solo per lavori di tipo illustrativo: era la mia preparazione urbinate che veniva fuori. La realtà è un concetto astratto: c’è una forma di stanchezza nella scelta dei soggetti, c’è una inadeguatezza nell’apparato in generale. Allora si reagisce dando colpi a destra e sinistra e tra questi io ho usato l’astrattismo».
Piazza Mazzini
Un altro dei “colpi” che ha cercato di sferzare è stata la battaglia contro i non luoghi e in favore del centro storico…
«Vogliamo parlare di piazza Mazzini? È la piazza più bella, tra le piazze più belle, ma non è valorizzata».
Come mai?
«Le cerque… Io la lascerei com’è, o meglio com’era: un luogo dove tutti si conoscevano e i rapporti erano stretti. Il centro storico è la nostra bandiera, se l’abbandoniamo che ci resta? Andrebbe vissuto diversamente, con più partecipazione. Non ho un progetto preciso in mente, mi piacerebbe vederlo più vivo. Erano altri tempi, eppure prima da via Crispi fino a Piaggia della Torre c’erano tre botteghe di marmisti, tre di falegnami, un tappezziere, una lavanderia, una tipografia, un ombrellaio…era tutto a portata di mano».
Poi c’è stato un decentramento delle attività…
«Sono fuggite da qui! L’amministrazione vede queste cose come seccatura, perché è più facile amministrare quando c’è meno roba».
Una Macerata più viva è possibile?
«Quelli che non ci credono sono i maceratesi. I primi a essere scettici sono proprio loro perché storicamente hanno subito un sacco di fregature, a partire dal Governo Pontificio. E poi un segreto c’è».
Me lo dica.
«La filosofia maceratese dice: “è meglio non comparire!”, non esporsi, insomma».
Le eccezioni però ci sono, come ad esempio lei.
«Eh, ma l’ho pagata tutta la vita. Il mio comportamento è derivato dalla necessità di andare oltre e di convivere con questo mondo, altrimenti venivo etichettato come uno che chissà chi vuole essere. Tenendo tutto basso è facile governare, se uno alza la testa subito viene messo a posto».
Bisognerebbe alzare la testa?
«Bisognava! Lo stato delle cose è che c’è una città venuta su così. Ora non so come può andare, io me lo auguro».
Come si immagina Macerata nel suo centesimo compleanno?
«Se va come adesso, in declino… Tuttavia io spero sarà meno morta. La immagino più reattiva, che si appassioni! Che sia capace di battere i pugni per farsi sentire. Ma se uno non ha niente da dire, che batte? La bassa qualità culturale della classe media maceratese è il problema. Bisognerebbe cercare di capire perché e anche perché i migliori vanno via, all’estero».
La lezione di vita più significativa che le ha dato Macerata?
«La tolleranza. Quel che voglio trasmettere è che non è per cattiveria che condanno questi atteggiamenti maceratesi, ma è per un disegno superiore. La vita è la conseguenza di alcuni atteggiamenti, se avessimo un pizzico di desiderio di uscire, di comunicare, i problemi sarebbero diversi».
La posizione geografica di Macerata, il suo essere arroccata e lo stato delle vie di comunicazione…
«Le strutture ricettive, sì. Bisogna distruggere a capocciate questa mentalità perché noi paghiamo secoli di tranquillità. Storicamente Macerata è sempre stata un po’ sul chi vive: questo vivere ai margini ti fa stare ai margini».
Logicamente parlando.
«Vivere ai margini significa non avere rottura di scatole».
Preservarsi.
«Conservarsi! È questo il punto, quando invece è necessario investire».
Come pensa reagirà Macerata ai prossimi cambiamenti?
«Non reagirà. Quieta non movere et mota quietare, io ci metterei questo all’ingresso di Macerata: Non agitare ciò che è calmo, ma calma piuttosto ciò che è agitato.
Adriano Ciaffi
Come dovrebbe essere il rappresentate ideale della “Città della Pace”?
«Com’è: Ciaffi. Come dovrebbe essere, be’: sveglio la mattina e poi durante tutta la giornata. Che guardi con attenzione la realtà e le nuove leve non per infettarle, ma per difendere dall’infezione».
Con chi le piacerebbe collaborare oggi a livello artistico?
«Non ci ho mai pensato. Indubbiamente con chi mi aiuta a tenere il cervello aperto! Il nostro problema è che a un certo punto scatta un meccanismo per cui sei inquadrato e non ti viene in mente di sognare in maniera diversa. Non ti senti autorizzato a farlo. Si pensi anche ai problemi dell’amministrazione, a quante cose ci sarebbero da ricominciare. Non c’è niente di male a dire che si è sbagliato…anzi, magari! È difficile dire di aver sbagliato. Ve lo immaginate Ciaffi che dice “ho sbagliato?” non so immaginarlo».
Ma può ancora sognarlo…
«(Ride, ndr). A parte gli scherzi, se fosse possibile avere una maggiore concentrazione, nell’attenzione su alcuni problemi, già molte delle nostre esigenze verrebbero risolte».
Il primo dei problemi su cui porre attenzione?
«La scuola! È lì che comincia tutto. Non si può adattare la nuova generazione a quella precedente. Non si deve prendere la forma di quel che c’era prima, ma andare avanti».
Quale materia istituirebbe ora a scuola per poter andare avanti?
«Pubblica amministrazione. Per sapere cosa spetta di diritto e qual è il contributo che il cittadino deve dare nella sua quotidianità. Le nostre leggi ultimamente sono incentrate solo nel conservare il potere. Conservazione, ancora! Non si può progettare il futuro solo calcolando gli sbagli del passato. O si ha coraggio o non si ha. Il coraggio però si paga…».
Fa sentire liberi?
«Con quello, però, non ce magni!»
C’è sempre il richiamo alla prudenza.
«Ci vuole equilibrio. Bisogna fare un passo alla volta, senza scatti, ché poi si casca! Ci sono dei momenti in cui verrebbe voglia di arrendersi…e purtroppo sono sempre più frequenti».
Nino Ricci alla presentazione di una sua mostra
In questi casi è utile l’appoggio delle persone intorno?
«Io sono sempre stato appoggiato dalla famiglia. Se avessi avuto una moglie diversa, probabilmente starei dietro ad altre cose. Il supporto della famiglia è importante, altrimenti ti senti solo e abbandonato».
La famiglia è cambiata?
«Sì e no. Prevalentemente no, ma bisogna stare attenti. Penso che si è diventati più prudenti. (Fa una pausa, ndr). Non so…».
Ci sono ancora domande di cui attende risposta.
«Lo spero! Finché ci sono domande…».
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