di Mario Monachesi
In tempi in cui “dentro le credenze pjiagnia pure li surci (topi), lo pa’ de granturco” era una soluzione alla fame. Sino ad oltre la metà del Novecento, almeno in Italia, sono esistiti due distinti regimi alimentari: “quillu de li ricchi e quillu de li puritti”. Due alimentazioni diverse dovute a due diverse possibilità economiche. I tipi di pane confezionati anche nelle case marchigiane, erano tre: “lo pa’ bianco, fatto co’ la farina de gra’ da le fameje de li signori; lo pa’ mischjo (o “mischino”) fatto co’ la farina de gra’ mischjata co’ quella de granturco da le fameje de medie cundizió’; lo pa’ de granturco, fatto co’ la sola farina jalla de granturco da le fameje de modeste, se non pessime, cundizió'”.
In campagna, tutto ciò avveniva a seconda di come era andata “la raccorda de lo gra'”. Se così e così, “pa’ mischjo”, se male, pa’ de granturco”. A volte c’era chi, alla già misera farina di mais, si vedeva costretto ad aggiungere sfarinati diversi come farine di fave, di ceci, di castagne e addirittura “de janna” (ghiande). A questo tipo di pane, rustico ma croccante, prevalentemente dolciastro finché caldo, qualche volta per la gioia dei bambini, nell’impasto veniva aggiunta l’uva passa. C’erano famiglie di povertà assoluta, ma rette con dignità e amore da cuori grandi come l’universo. Alcuni genitori “‘mpastava e mittia a coce lo pa’ de granturco per issi e quello de gra’ pe’ li fiji”. Si sacrificavano anche “su lo pa’ pur de non fa’ mancà’ gnente a li vardasci”, pur de daje a magnà’ checcosa de vono”.
La panificazione, in città avveniva nei forni comuni, in campagna in quelli adiacenti ad ogni casa colonica. “Ogni contadì ci-avia lu sua”. “A seconda de la farina usata, ce se facia anche la crescia. Era ‘na focaccia nnèrta (spessa) che ‘na orda cotta vinia spaccata e rimpjita co’ l’erbe cotte. D’inverno se putia mette a coce anche sotto la vrascia. ‘Ncartata co’ le vrange (foglie) de caulu pe’ non fa’ ‘nncennerà tutto. Le foglie del cavolfiore gli aggiungeva anche un ulteriore e non proprio pessimo sapore.
Era “‘na spuzzata a ‘lle farine rimediate co’ gnicó'”. L’economista Luigi Valeriani Molinari (Imola 1758 – Bologna 1828), inserisce il mais fra le specie di “erbe i cui grani si panificano”. Molto importante è stato “lo pa’ de farro”, cereale di antichissima tradizione, uno dei simboli della civiltà dei Piceni, che lo utilizzavano nel rituale della “confarratio”, uno scambio simbolico tra le famiglie dei promessi sposi. Il pane di farro, dal colore piuttosto scuro, e il resto dei pani, hanno tutti la stessa tecnica di preparazione. Fatte le pagnotte e incise in superficie con una croce, prima di cuocerle per 45 minuti circa, venivano lasciate riposare un po’. Tornando alla farina ” de granturco”, un tempo dalle nostre parti le qualità di mais più coltivate erano tre: “Quarantino nostrano del maceratese o di Treia”, nelle sue versioni giallo o rosso scuro; “il giallo spadone” e “il giallo nano”. Dopo la seconda guerra mondiale, con il timido inizio del boom economico, le cose iniziano a cambiare, anche “lo pa’ de granturco” incomincia a venir finalmente soppiantato. Nonostante la luce che già si intravede in fondo al tunnel, in campagna, a chi domandava che cosa ci fosse stato per cena, veniva ancora risposto: “Un piattu de foje e ‘na fetta de lonza, pa’ e vi’ a volontà”.
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