Manifestazione di senegalesi a Porto Recanati, 2-300 le persone (alcuni arrivati da Macerata, altri da Ancona, Jesi, Tolentino e Ascoli) che oggi pomeriggio si sono ritrovati all’Hotel House per poi muoversi verso il comune. I senegalesi hanno manifestato in seguito all’uccisione a Firenze di un loro connazionale, Idy Diene, ucciso lo scorso 5 marzo da un pensionato, Roberto Pirrone. La manifestazione si è svolta in maniera tranquilla. Presente anche l’imam. I manifestanti hanno urlato “Basta” e mostrato foto del connazionale ucciso. . Davanti alla sede del comune il sindaco Roberto Mozzicafreddo ha detto che «la criminalità va condannata qualunque sia il colore della pelle, i violenti vanno condannati tutti». Gli organizzatori della manifestazione hanno detto: «Siamo qui per esprimere solidarietà al nostro connazionale ucciso a Firenze e per portare un messaggio di pace». E’ stata letta una lettera consegnata a sindaco di Porto Recanati, per il presidente della Regione e per il sindaco di Firenze. «La nostra comunità è presente in Italia da più di un ventennio – scrivono nella lettera – e nella provincia da più di 15 anni, si è dedicata al lavoro nelle fabbriche della zona o al commercio itinerante. La città di Macerata è conosciuta come una città accogliente e solidale però l’evento tragico avvenuto a Macerata nel mese di febbraio ha avuto riflessi nei rapporti tra stranieri e autoctoni. Noi avevamo condannato con veemenza questo atto violento e ingiustificato, su un essere umano. Lo si può notare nei luoghi pubblici, che serpeggia un clima di rigetto nei confronti dello straniero». Sull’episodio di Firenze parlano di una «esecuzione di una violenza efferata per mano di un folle, candidato al suicidio pentito. Nel 2011 sempre a Firenze due senegalesi commercianti di professione, vengono trucidati da un estremista, a piazza Dalmazia. A tutte queste famiglie senegalesi, esprimiamo il nostro cordoglio. Ci rivolgiamo a lei signor prefetto, lei che rappresenta la massima autorità locale, per chiedere protezione e il pieno rispetto dei nostri diritti, in quanto cittadini a pieno titolo. Lanciamo un accorato appello per chiedere che la giustizia faccia pienamente il suo lavoro».
(Foto Federico De Marco)
(Servizio aggiornato alle 19,45)
Un momento della manifestazione
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https://youtu.be/M-EU0BG67e8?list=RDM-EU0BG67e8
Non siamo mai stati negrieri. In Africa, quando siamo entrati nell’Egitto di Sua Maestà Britannica, la democrazia in persona, abbiamo trovato una nazione sfruttata, affamata, ghettizzata. Ma avevamo lasciato dietro le nostre spalle il Gebel cirenaico, redento dai nostri coloni. Non negrieri, civilizzatori.
La partenza da Genova
«Nelle taverne a Genova ho speso 19,40 lire. Oltre tutto, con Domingo Fin era combinato il prezzo di 155 lire, esenti da tasse. Ma quando siamo andati a pagare, ne hanno chiesto 160: tutti ladri. Siamo arrivati due giorni prima, giusto per farci portar via ancora un po’ di soldi, a Genova, se potessero, ci porterebbero via anche il cuore (…). Fate in modo di venir via da casa, arrivare a Genova e partire subito. Prendete quello che serve a Valdagno. Se vi è possibile, portate una bottiglia di rum, una di olio e delle cipolle …».
(Paolo Rossato, lettera ai suoi)
Sulla nave
Finalmente, con mille difficoltà, privati dei pochi averi, ci si imbarcava e si partiva. Più che una nave passeggeri, il bastimento pareva una nave da carico, piena zeppa di persone «messe a bordo e ammucchiate come pecore destinate al mattatoio». Toniazzo, nel suo racconto di viaggio, crede atipica la situazione della nave su cui si imbarcò per venire in Brasile. Invece, era la regola. La sua nave, da Genova partì per Napoli e appena attraccò, «il personale si lanciò a caricare altri 600 napoletani (…) con destinazione Rio de Janeiro e Buenos Aires. Come eravamo ammucchiati in quella nave, mio Dio, quando imbarcarono quasi altrettanti passeggeri! In quella benedetta nave eravamo più di 1.500 persone in terza classe, schiacciati come sardine in scatola». […] «I casi di morte erano frequenti. Sul “Parà” si diffuse un’epidemia che uccise 34 persone. La nave “Matteo Bruzzo” vagò per tre mesi, affondando cadaveri. Il naufragio della nave “Sirio”, con tutto il suo carico umano, non fu dimenticato nelle colonie italiane del Rio Grande do Sul. “Sirio, Sirio, la misera squadra; per moneta gente la misera fin”, cantavano gli immigranti nelle ore di malinconia».
* * *
«Una volta, morirono tutti i bambini di un vapore con 1.800 coloni a bordo, perchè c’era stata un’epidemia di difterite».
La fazenda
Finalmente arrivavano alla fazenda. Assoggettati a un capo squadra, spesso schiavo o ex-schiavo, non vedevano quasi mai il padrone, che, talora, non abitava nemmeno nella fazenda. «L’interno della fazenda è un piccolo villaggio di reclusi»: una campana chiama al lavoro, che inizia all’alba e finisce la notte. In molti casi un «pasto che rivolta lo stomaco più robusto» viene portato per tutti. L’italiano riceve un tanto per piede di caffè coltivato e un tanto per il caffè raccolto, ma con questo deve pagare tutti gli acquisti fatti nell’unico magazzino locale, appartenente al padrone. Alla fine dell’anno, per quanto si sia fatta economia e si sia lavorato, è ben poco quello che si riesce ad accumulare.
Il mercato degli schiavi
I fazendeiros paulisti, nello stesso modo e con la stessa mentalità con cui negli anni precedenti si erano rivolti al mercato degli schiavi, adesso si rivolgono alla Casa dell’emigrazione per trovare manodopera per le loro piantagioni. J. Gelain descrisse lo spettacolo: «Facevano proposte stupende, affermando che i fazendeiros erano buoni e coscienziosi. Molti italiani credevano alle bugie degli interpreti e partivano per l’interno. Senza mezzi, facendo la fame e vivendo in miseria, molte coppie vendevano i loro pochi averi per non soccombere. Non trovavano neppure case in cui vivere».
Dopo l’ingaggio, gli immigranti partivano alla volta delle fazendas.
Inizialmente viaggiavano in treno, nelle condizioni più sfavorevoli, spesso stando in piedi per tutto il viaggio. L’ultimo tratto, poi, anche cinquanta, settanta e più chilometri, veniva fatto a dorso di asini da alcuni, a piedi da altri, sotto le intemperie, dormendo all’aperto.
Farina marcia
Deboli, con poche cure igieniche, senza assistenza medica -la maggior parte dei dottori erano ciarlatani- male alimentati, morivano. Uno di loro racconta: «Ricordo che al dazio distribuivano farina marcia agli immigranti. Fortuna volle, però, che avessimo una buona stagione di pinoli, perchè diversamente avremmo patito veramente la fame» (Maestri, 1939). J. Gelain riferisce che un suo zio, che aveva febbre e mal di testa, impazzì e gridava disperatamente. La madre ebbe un bimbo e, «in conseguenza del parto, si ammalò gravemente. Il padre cercò il medico, un certo Napolitano. Questi sbagliò prescrizione. E la povera madre, fra vomiti e gemiti, morì 24 ore dopo. Il giorno stesso, morì anche il neonato, di nome Gaetano. Furono chiusi nella stessa bara».
Lardo pieno di vermi
A. Broetto, narrando le peripezie del colono a Santa Teresa, Espirito Santo, commenta che, quando qualcuno si ammalava, veniva portato a spalle a un ospedale, a 13 km di distanza, «attraverso sentieri dove in Italia non passano nemmeno le capre». «Il cibo che ci davano era carne di bue salata, chiamata carne secca, ma era andata a male e puzzava talmente da far venire la nausea, farina di mais deteriorata, farina di frumento di qualità infima, farina di manioca (chiamata farinha-de-pau) cruda, acida, baccalà che puzzava a un chilometro di distanza, lardo pieno di vermi e altri alimenti di questa qualità».
Dio non volle che io morissi
Nella sua semplicità e nel suo dolore, forse nessuna storia di quei tempi può essere paragonata a quella raccontata da J. Gelain, in parte già riportata nelle pagine precedenti. Orfano di madre, abitava nel Travessao da Barra, vicino al fiume Antas, con il padre e lo zio; non avevano denaro, non avevano una casa propria e il raccolto era in ritardo. La zia e un’amica, nella cui casa vivevano, andavano a chiedere l’elemosina nei dintorni, in casa di coloni poveri come loro.
«Il giorno in cui si mangiava meglio, il pasto era composto da polenta con zucchero o pezzettini di zucchero grezzo». Sapendo che il governo offriva lavoro sulla strada per Paese Novo, dopo Antonio Prado, andò con lo zio e alcuni suoi amici. Non avevano i soldi, però, nemmeno per pagare la zattera e così dovettero passare la notte nel bosco, al freddo e senza cibo. Il giorno dopo il proprietario della zattera, mosso a pietà, li portò dall’altra parte del fiume Antas, dove un colono diede loro della canna da zucchero per placare la fame. A mezzogiorno, finalmente, riuscirono a mettere nello stomaco polenta senza sale. Dopo 15 giorni di lavoro in strada, tornarono, pagando persino il proprietario della zattera. Qualche tempo dopo, sempre in cerca di lavoro, J. Gelain lavorò con tre compagni alla costruzione della ferrovia Sào Leopoldo-Taquara, dove rimase cinque mesi. Al ritorno, in pieno inverno, fu trascinato dalla corrente mentre attraversava il fiume Santa Cruz. Fradicio, chiese asilo in casa di una famiglia, che glielo rifiutò. «Passammo la notte in un porcile. Andammo a chiedere dell’acqua calda per dare sollievo allo stomaco. I cani addentrarono le nostre borse con gli effetti personali, le aprirono e ci strapparono tutto il caffè, mentre lo zucchero si era già liquefatto durante l’attraversamento del fiume. Era una notte di freddo intenso e noi ci trovavamo con gli abiti bagnati e senza cibo. All’alba del giorno successivo ci fu una grande gelata. Verso le due del mattino, sentii che le forze mi mancavano e terrorizzato dissi al mio compagno, Antonio Caon: «Antonio, quando arriverai a casa, racconta della tragedia che ci è capitata e soprattutto di’ a mio padre che sono morto di fame e di freddo …” (…) Il mio compagno soffiò per due ore per darmi un po’ di calore. E Dio non volle che io morissi».
Vengono a popolare i cimiteri
2.300 persone. Vedendo il numero di morti e di disperati un giornale scrisse: «Ci chiediamo solo se il Brasile chiami gli immigranti per popolare la terra o i cimiteri».
Meglio in un porcile ma in Italia
Sui coloni di Morretes, nel Paranà, il deputato Antonibon lesse alcune relazioni al Parlamento italiano del 1880. «Mi trovo qui in croce, pieno di fame, di sete e tradito. Di cento, ci riducemmo a quaranta. Chi perse il marito, chi la moglie, chi i figli. Si dice da queste parti che alcuni del Tirolo si siano mangiati un figlio (…)». «Siamo come animali: senza prete, senza medico. Non si dà neppure sepoltura ai morti: siamo peggio di cani incatenati. Di’ al padrone che io sarei più felice nel suo porcile in Italia che in un palazzo in America».