di Mario Monachesi
Un tempo oramai lontano il biroccio era l’unico mezzo di trasporto diffuso nelle campagne che poteva trasformarsi in veicolo da carico per derrate alimentari, materiali da costruzione, animali, ma anche per persone. In occasione di particolari festività, decorato con rami verdi, serviva alla famiglia per recarsi in paese. Ma, trainato da buoi bianchi, infiocchettati e decorati con pompon e con fasce sulle quali brillavano specchietti di vetro, veniva utilizzato anche per il trasferimento del corredo della sposa nella casa dello sposo, racchiuso in pittoresche e colorate cassepanche. La cassa, semiaperta, era messa ben in evidenza e da essa si facevano volutamente fuoriuscire gli elementi più belli del corredo nuziale. Spesso “lu virocciu” diventava anche una sorta di carro allegorico usato per le “feste dell’uva” o per altre manifestazioni, quasi sempre religiose.
“Quanno ce se cacciava lo stabbio” (letame), era poi una festa portarlo a lavare lungo il fiume più vicino. I bambini ne approfitta vano per giocare con l’acqua e le donne per lavare lenzuola e altri panni. Per costruire uno di questi carri, nei primi del ‘900 ci volevano anche tre mesi e l’impegno di almeno due persone; poi, dopo la guerra, con l’avvento di macchinari più sofisticati per lavorare il legno, il tempo di esecuzione si è ridotto a una settimana. Intorno al 1920 il costo “de un virocciu” si aggirava sulle 900 lire, il suo peso era di circa 5 quintali e mezzo e il legno usato doveva essere ben stagionato. Infatti erano necessari un anno di esposizione all’aria aperta e un altro anno al coperto per avere una perfetta stagionatura. Si utilizzava legno di olmo per costruire il timone, quercia per i raggi delle ruote e frassino, acero o faggio, per i quarti delle ruote vere e proprie. Il biroccio era tutto decorato e il procedimento pittorico prevedeva una doppia stesura di olio di lino cotto dato puro a tutto il carro poi, il giorno dopo, si passava una prima mano di diversi colori e il terzo giorno la pittura definitiva. Il quarto giorno si iniziava la fase decorativa. Ogni provincia marchigiana aveva i suoi colori, così mentre quella anconetana e maceratese usava il rosso molto sgargiante, il blu caratterizzava quella pesarese.
Qui da noi allora, sul rosso scarlatto delle ruote veniva disegnata una linea zigzagante bianca, la tavola anteriore un po’ inclinata verso il timone (anche questo tutto rosso) recava quasi sempre l’effige di Sant’Antonio Abate; le fiancate, suddivise in tre parti con listelli di legno, mostravano ghirlande, vasi di fiori, mazzi di spighe, immagini di vistose fanciulle con colombe in mano, figure di suonatori d’organetto e di personaggi storici. Riguardo le “vistose fanciulle”, ancora oggi qualcuno, per evidenziare una donna truccata vistosamente, usa il detto: “Me pari la pupa de lu virocciu”. In una fiancata del carro non sempre veniva scritto il nome del costruttore, mentre era sempre presente quello del proprietario, con tanto di soprannome e indirizzo. La trazione “de lu virocciu” era demandata ai buoi che venivano appaiati ai lati del lungo timone e controllati dal giogo, anch’esso brillantemente decorato con rosette e greche. Un importante museo che ne ospita storia ed esemplari, si trova a Filottrano.
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Io me record pure che ciaia ‘na targhetta de llumio do ci statia scritti certi nummiri, essa era de sicuro triangolare ma me pare che putia esse anche quaranta, me sbaglio?
Me pare che era ‘na specie de targa,può esse?
La targhetta in alluminio era il bollo, che variava in base alla misura delle ruote (non so se in base alla circonferenza o la larghezza).
Sig.Urbani, La ringrazio molto per la spiegazione ma da quando la vedevo sono passati almeno 55 anni e sinceramente non lo sapevo e me la sono ricordata leggendo il pezzo del Sig. Monachesi. Grazie.