I vaccini ai tempi di Leopardi:
il conte Monaldo primo a sperimentarli

RECANATI - Il padre del poeta, venuto a conoscenza di una cura prodigiosa, l'aveva fatta arrivare da Genova per somministrarla ai tre figli. Fu il primo nello Stato della Chiesa a farvi ricorso

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Donatella Donati

 

di Donatella Donati

“Fra le tenere membra orribil siede
Tacito seme: e d’improvviso il desta
Una furia funesta
De la stirpe degli uomini flagello.”

Nel 1765 Giuseppe Parini, poeta civile di scuola milanese, scriveva l’ode “L’innesto del vaiuolo”, in cui inneggia ai primi tentativi di vincere una guerra dolorosissima, che da secoli colpiva soprattutto le giovanissime generazioni, contro un nemico fino ad allora invincibile: il terribile vaiuolo. Nei frequenti periodi di epidemia, la malattia colpiva soprattutto i bambini, li riempiva di pustole e, se non morivano, le nere croste che si formavano, staccandosi dal volto, lasciavano buchi profondi. I visi ne risultavano deturpati fino alla morte. La malattia, come diceva Parini, colpiva abitanti di regge e di tuguri, e butterava, annerendoli, i visi delle donne più belle. Non ne erano esenti neanche le regine. Nel secolo diciottesimo, quando ha origine una ricerca scientifica, antesignana di quella moderna, uno scienziato inglese, Edward Jenner, scoprì un antidoto prodigioso, ricavandolo dal pus delle mucche, affette da quella malattia, e nel 1798 riuscì a guarire il primo bambino. La notizia di questa scoperta giunse anche a Recanati e colpì il padre affettuoso di tre piccoli bambini: Monaldo Leopardi. Questi, allora venticinquenne, si fece mandare da Genova, attraverso un amico della famiglia Doria, la ‘materia’ prodigiosa che debellava il vaiolo. In un diario di memorie, conservato nella biblioteca di casa Leopardi, come ci informa Franco Foschi, che lo aveva consultato, nel libro Epidemie nella terra di Leopardi, Monaldo riferisce di avere inoculato tale ‘materia’, per ben due volte, nelle braccia dei suoi tre figli: Giacomo, Carlo e Paolina. E di aver seguito per giorni con grande ansia lo sviluppo della pustola che si formò, della febbre che li colpì e della caduta finale della crosta, fino alla guarigione. Monaldo in quel diario si vanta di essere sicuramente il primo e l’unico nello Stato della Chiesa ad aver tentato con tanto successo questa sperimentazione, dimostrando a tutti i padri dubbiosi l’eccellenza del vaccino scoperto. Nel corso dell’Ottocento il passaggio di questa ‘materia’ nelle mani di addetti ai lavori debellò la paurosa malattia per la quale, secondo statistiche trovate e rilevate da Franco Foschi, moriva circa la metà dei nati nei periodi di epidemia. E una buona quantità ne rimaneva mostruosamente segnata. Molto curiosa è una lettera che nel 22 maggio del 1832 da Firenze Giacomo inviò alla sorella Paolina, con un flaconcino contenente “un filo intriso di ottimo pus venuto da Milano” e che sarebbe servito al fratello Carlo, evidentemente per sua figlia. Da tale lettera si deduce che il vaccino veniva prodotto in maniera sempre più frequente e farmacologica. Nel regno d’Italia la vaccinazione venne resa obbligatoria nel 1888 e da allora la malattia è andata scomparendo, tranne casi rari di inadempienza. Questa ricostruzione storica di un evento di eccezionale portata per la salute umana, in particolare dei bambini, mi serve per esprimere la mia disapprovazione nei confronti di quei genitori e di quegli improvvisati scienziati, senza alcuna preparazione consistente che, durante questa prima parte dell’anno, si sono scagliati contro la vaccinazione obbligatoria, con i pretesti più politici che oggettivi, facendone quasi una battaglia di libertà, senza nessun rispetto della scienza e, soprattutto, della salute della cittadinanza che cresce. Abbiamo sentito, a giustificazione del diniego a vaccinare, le motivazioni più incredibili e strane, alle quali hanno dato il loro supporto anche politici d’occasione, dimostrando a mio parere come il livello generale della cultura scientifica in Italia sia molto basso. Ritorneremo ai riti magici? Speriamo che a vincerla sia sempre la ragione, come lo stesso Monaldo spesso si è augurato.



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