di Mario Monachesi
Il pomodoro è un frutto annuale (estivo), dal caratteristico colore rosso e largamente utilizzato in ambito alimentare, in molti paesi del mondo. Esso è originario dell’America centrale, in Europa arriva intorno al 1540. È ricco di principi nutritivi a basso contenuto calorico. Ogni cento grammi solo 18 calorie.
“Lu pummidoru” occupa una posizione di rilievo anche nella cucina marchigiana e maceratese. Tra le qualità più coltivate nei nostri orti casalinghi: “li San Marzà’, “Gingala”, “Ciliegina” (Pachino).
Un ingenuo ma spontaneo canto popolare così lo definisce: “Pommidoretto mio, pommidoretto / che fra le vrange verdi fai ll’occhjetto. / Pommidoretto mio / de bona razza / pari la guancia de la mia regazza”.
Quando esso venne conosciuto in Italia, il botanico Mattioli lo chiamò “Pomo d’oro” perché era di un bel giallo dorato. Molto diffuso in tutto il territorio si usa mangiarlo sia cotto che crudo. Fino a qualche tempo fa nella nostra provincia non era insolito vederlo consumare tagliato a fette tra due robuste metà di una pagnotta svuotata della mollica.
Oltre che come fondamentale elemento di una insalata composta da cetrioli, peperoni e cipolle, lo si usa fare sulla graticola, tagliato in due pacche, ripiene di pane grattugiato, prezzemolo, aglio tritato, sale e olio. L’uso di utilizzare il pomodoro per il sugo è abbastanza recente: pare che solo nel 1839 si ha, almeno a Napoli, la prima ricetta di pasta con il pomodoro. In effetti fino al secolo XIX lo si credeva addirittura velenoso, comunque adatto solamente come pianta ornamentale, nonostante che i francesi l’avessero battezzato “Pomme d’amour”, pomo d’amore per certe sue presunte proprietà afrodisiache.
Nelle Marche, per farli durare a lungo si pensò di conservarli facendo appunto la “conserva”. Il procedimento consisteva nel tagliarli a pezzi, sistemarli sopra una spara (panno da cucina) e poi spremerli affinché perdessero tutta l’acqua. Fatti bollire per diverse ore venivano poi passati in un setaccio (lu stacciu) e poi di nuovo a bollire fino a che quella poltiglia non acquistasse un colore bruno scuro. Depositato tutto sulla spianatora la passata veniva poi posta al sole per più giorni. Poi, tagliato il tutto a panetti, questi venivano ancora esposti al sole e poi, ben unti con olio di oliva e avvolti in carta oleata, erano conservati in recipienti di coccio.
Oggi, nonostante i supermercati offrano salse cotte, crude, con e senza odori, passate a pezzettoni, pezzettini, ruvide, meno ruvide e chi più ne ha più ne metta, in campagna i pomodori vengono tagliati in piccoli pezzi o passati con la macchinetta e successivamente imbottigliati dopo una cottura a bagnomaria “dentro lu callà” posto su di una “fornaciola” improvvisata.
Per raccontare di questo oramai largo uso che di questo pomo se ne fa (gustoso anche sulle pizze), un modo di dire così recita: “e che si come lu pummidoru, ‘n do’ vaco te ttròo”.
Altri modi di dire: “è diventatu rusciu come un pummidoru”; “c’è rmastu come un pummidoru”; “statia a fà’ lu pummidoru”; “è statu pijatu a pummidorate”.
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